L’Italia del Rinascimento è la culla della letteratura equestre europea, allora del mondo. Il termine equestre è inteso, qui e in tutta la mia relazione, come relativo all’addestramento e all’impiego del cavallo, quale che sia il tempo, il luogo e il tipo di impiego, dal combattimento medioevale, corpo a corpo o lancia in resta, al concorso di salto moderno. Gli unici trattati anteriori agli italiani che ci siano pervenuti sono il trattato di Kikkuli dei Mitanni, scritto con caratteri cuneiformi su tavolette d’argilla circa 1500 anni prima di Cristo, e il Perì Ippikès e l’Ipparchicòs di Senofonte, scritti circa 450 anni prima di Cristo.
Il primo è un testo di ippologia e di allenamento del cavallo, il secondo e il terzo sono testi in cui, tra l’altro, è descritto l’occorrente per l’impiego del cavallo militare del tempo, con alcuni accenni alla psicologia del cavallo e alla psicologia del suo addestramento che hanno conservato una validità, come, per esempio, il collegamento tra richiesta, comprensione, esecuzione e ricompensa. L’introduzione della stampa a caratteri mobili risale al 1455, quando inizia la composizione della cosiddetta Bibbia Mazarina o delle 42 righe del tipografo tedesco Johannes Gutemberg, poi pubblicata dal socio Johannes Fust. La stampa ha una grande importanza per la diffusione di conoscenze che erano fino ad allora riservate a pochi. A parte le rarissime traduzioni di Senofonte, nulla allora era dedicato al modo di addestrare e di impiegare il cavallo. I cavalieri-letterati del Cinquecento si trovano nella condizione di dover inventare una nuova branca di conoscenze relativa al cavallo, che solo in seguito prende il nome di equitazione. Prima dell’invenzione della stampa i testi che trattano la conoscenza del cavallo circolano sotto forma di manoscritti. Rari e carissimi. Sono per lo più testi di ippologia e di veterinaria, quelle primitive del tempo, testi detti di marescialleria o mascalcia. A metà del Cinquecento avviene la divisione tra due grandi correnti: i testi di mascalcia – ippologia e veterinaria – e i testi detti di equitazione o di scuderia. La scuderia era il locale dove viveva lo scudiero che poi dette il nome anche al locale dove alloggiavano i cavalli. Molti testi che circolavano come manoscritti, dopo l’invenzione della stampa, vengono stampati e possono essere maggiormente diffusi come libri.
Il primo libro stampato dedicato unicamente al cavallo appare tra il 1486 e il 1490 a Roma presso Eustachio Silber, intitolato De natura, electione, educatione, gubernatione ac omnium mororum equi cognitione et curatione. E’ stato scritto verso il 1340 dall’ippiatra Laurentius Rusius, Lorenzo Rusio, marescalcus de urbe a Roma e famiglio del cardinale Napoleone Orsini. E’ stato diffuso come manoscritto in latino, italiano e siciliano. Ma non si tratta ancora di scuderia, cioè di vera equitazione. Veniamo alla storia che più interessa la mia relazione. Napoli nel Cinquecento diventa la città maggiormente conosciuta d’Europa per l’insegnamento e l’irraggiamento in Europa della bella equitazione. Perché Napoli? I Bizantini sarebbero i primi veri e propri cultori dell’«arte equestre», essendo stati ispirati da cavalieri altrettanto raffinati, i Persiani. Cesare Paderni, cavallerizzo capo, cioè direttore dell’equitazione alla Scuola di Cavalleria di Pinerolo, a pag. 185 delle sue lezioni per il Corso Magistrale tenuto dal 1891, scrive: «Verso il 1134 diversi scudieri che lavoravano nel circo di Costantinopoli abbandonarono quella città e si portarono a Napoli, ultimo paese d’Italia che riconosceva ancora l’autorità degli Imperatori di Bisanzio, e vi fondarono una specie di scuola di equitazione». Non si sa dove Paderni abbia preso questa notizia tanto precisa. Ma, stranamente e sorprendentemente, data la grande autorità della fonte, è l’Enciclopedia Treccani a segnalare l’arrivo a Napoli, nel 1134, di sette scudieri bizantini, incaricati da Michele IV, detto il Paflagone, imperatore dell’Impero romano d’Oriente, di far scuola in quella città. La sorpresa deriva dal fatto che, secondo la storia e secondo la stessa Treccani, Michele IV Plafagone, imperatore dal 1034, morì nel 1041. Non avrebbe dunque potuto evidentemente prendere quella iniziativa nel 1134, 93 anni dopo la sua morte.
E’ invece accertato che, alla caduta di Costantinopoli in mano turca nel 1453, molti scudieri bizantini si rifugiarono a Napoli e lì iniziarono a insegnare la loro arte. Sarebbe una spiegazione del fiorire proprio a Napoli di un’accademia equestre che, circa un secolo dopo, con Giovambattista Pignatelli, divenne faro equestre d’Europa. Lo storico francese André Monteilhet scrive che «Pignatelli può essere considerato, dopo Grisone e Fiaschi, la realizzazione del “tronco comune” napoletano, da cui presero il volo, dopo la scuola che vi fecero, i fondatori delle scuole francese, germanica, inglese, scandinava e – per una giusta conseguenza – delle scuole andalusa e portoghese». In sostanza tutta l’Europa. A Napoli, inoltre, gli Spagnoli, che la occuparono nel 1501, importarono un cavallo più insanguato, frutto degli incroci con il cavallo arabo introdotto dopo il 700 dagli Arabi che avevano invaso quasi tutta la penisola iberica, cavallo più leggero, agile e ardente del cavallo campano, che favorì quella che lo storico Etienne Saurel chiama la «nascita dell’equitazione accademica».
A Napoli vide la luce nel 1550 il primo libro dedicato esclusivamente all’equitazione, Gli ordini di cavalcare di Federico Grisone presso lo stampatore Giovan Paolo Suganappo. Ebbe un successo straordinario. Venne presto tradotto nelle principali lingue europee. In Italia tra il 1550 e il 1620 ebbe sedici edizioni. A Napoli, dunque, dal Cinquecento, e forse già dalla fine del Quattrocento, funziona la più antica accademia di equitazione che sia citata sui libri di storia e dagli autori equestri, diretta da Giovan Battista Pignatello o Pignatelli. Scrive François Robichon de La Guérinière, il più illustre cavaliere e maestro francese, a pag. 60 della sua Ecole de Cavalerie, edizione del 1733: Giovan Battista Pignatelli, maestro del Signor de La Broue, «teneva accademia a Napoli: Questa Scuola aveva una così gran reputazione, che la si considerava come la prima del mondo. Tutta la nobiltà di Francia e di Germania, che voleva perfezionarsi nella Cavalleria, era obbligata ad andare a prendere lezioni da questo illustre Maestro».
Il duca di Newcastle, il più illustre cavaliere e maestro inglese, autore del famoso trattato Methode Nouvelle et Invention Extraordinaire de Dresser les Chevaux et les Travailler selon la Nature, qui est Perfectionée par la Subtilitè d’un Art, qui n’a jamais esté trouvé, que par le Tres-Noble, Haut, & tres-Puissant Prince Guillame de Cavendish, Duc, Marquis, & Comte de Newcastle, (seguono altri dieci titoli), scrive a pag. 1 : «Questa Nobile ed Eccellente Arte fu in primo luogo iniziata & inventata in Italia, dove tutti i Francesi e molti di altre Nazioni andavano per impararla: Questo avvenne a Napoli, dove venne costruita la prima Accademia per montare a Cavallo, & Federico Grisone Napoletano fu il primo che ne scrisse, ciò che fece da vero Cavaliere e come un grande Maestro in un’Arte che allora non era che nella sua Infanzia».
Queste poche citazioni, condivise da tutti gli autori equestri, antichi e moderni, italiani e stranieri, confermano il primato di Napoli come città equestre per eccellenza. Giovan Battista Pignatelli diventa il maestro al quale da tutte le corti d’Europa si recano a imparare i giovani nobili che vogliono fare il mestiere dei cavalieri e delle armi. Ricordo che montare a cavallo e armi sono per il nobile del Rinascimento, come d’altra parte per il cavaliere del Medio Evo, due fatti strettamente legati e interdipendenti. A parte il cavallo impiegato come mezzo di lavoro e di trasporto, montato o attaccato a carrozze e carri o come cavallo da soma, cioè da carico, non esiste l’impiego, neppure l’idea, del cavallo come svago o come strumento per quello che sarà chiamato sport. La caccia a cavallo era certamente già nata sin dalle origini dell’impiego del cavallo, data la sua velocità nell’inseguimento della preda. Ma è nata come attività pratica, necessaria, economica (procurare alimento), certamente non ludica. Lo diventerà in seguito. Lo sport, allora, sono i tornei, i duelli, le giostre, rappresentazioni ludiche dei veri e propri combattimenti corpo a corpo e dei combattimenti in ordine chiuso, una truppa di cavalleria contro quella nemica.
Da Napoli, come poco dopo da Ferrara, Pavia e Mantova e da altre città dell’Italia, si diffonde l’insegnamento scritto che, come ho scritto precedentemente, ha un grande sviluppo dopo l’invenzione della stampa. I primi libri di equitazione che vedono la luce in Italia nel XVI secolo sono, nell’ordine dell’anno di pubblicazione: Michelangelo Biondo, Della domatione del poledro, del suo amaistramento, della conservatione della sanità del cavallo, et della utilissima medicina contra li sua morbi, opera molto necessaria, ad ogni Imperatore de gli eserciti, ad bon soldato, et gran cavaglieri, da incerto philosopho anticamente scritte, et dedicata anchora ad uno de gli antichi Imperatori. Nuovamente perciò venuta nelle mani del biondo, da lui tradotta in lingua materna per vostra consolazione. In Venetia, appresso il biondo, 1549. Questo libro come data di pubblicazione sarebbe il primo libro venuto alla luce in Italia riferito al cavallo e al suo addestramento, la «domazione del puledro». Non lo conosco e non ne ho mai sentito parlare, né ne ho letto, finché non mi è giunto l’opuscolo De Rusius à La Broue, itinéraire du Livre Equestre dans l’Europe de la Renaissance, pubblicato nel 2002, scritto da Philippe Deblaise, erudito bibliofilo e competente uomo di cavalli francese, nonché antiquario di libri, che ha esposto questo libro al castello di Oiron durante il colloquio «Le arti dell’equitazione nell’Europa del Rinascimento», organizzato dalla Scuola Nazionale di Equitazione francese nel 2002. E’ la sola menzione che abbia letto di questo libro.
Ecco l’elenco dei libri italiani scritti, stampati e pubblicati in Italia:
• Federico Grisone, Gli ordini di cavalcare, stampato da Giovan Paolo Suganappo, Napoli 1550.
• Cesare Fiaschi, Trattato dell’imbrigliare, maneggiare, et ferrare cavalli, Anselmo Giaccarelli, Bologna 1556.
• Giovanbattista Ferraro, Delle razze, disciplina del cavalcare, et altre cose pertinenti ad Essercitio così fatto, Mattio Cancer, Napoli 1560.
• Claudio Corte, Il cavallarizzo, Giordano Zilletti, Venezia 1562.
• Pasqual Caracciolo, La Gloria del Cavallo, Gabriel Giolito de’ Ferrari, Venezia 1566.
• Ottaviano Siliceo, Scuola de’ cavalieri, Antonio Colaldi e Ventura Aquilini, Orvieto 1598.
Risultano essere stati pubblicati altri libri scritti in Italia da un Italiano, dei quali abbiamo soltanto l’edizione pubblicata in Francia e non risultano dati dell’edizione originale, tra i quali, per esempio:
• Marco de’ Pavari, L’Escuirie de M. de Pavari vénetien, Jean de Tournes, Lyon 1581
Che l’Italia e in particolare Napoli siano state la culla dell’equitazione che più tardi darà origine all’equitazione accademica, l’equitazione che si insegnava nelle accademie, che, all’inizio del Novecento, ha dato origine a sua volta alla moderne competizioni di equitazione accademica che si svolgono in un rettangolo, è riconosciuto da tutti.
Approfitto della felice occasione per ripetere che queste competizioni oggi, in Italia, si chiamano di dressage, che in francese e in inglese vuol dire addestramento, non mi stancherò mai di ripeterlo. In Italia si dovrebbero chiamare di Addestramento, con la A maiuscola, per distinguere la competizione nel rettangolo dal lavoro di addestramento del cavallo. Problema sorto anche in Francia, dove l’addestramento del cavallo viene chiamato dressage con la d minuscola e la competizione Dressage con la D maiuscola. In Francia è descritto, per esempio nel Manuel d’équitation della Federazione Francese di Equitazione, sotto titolo Instruction du cavalier – Emploi et dressage du cheval, il lavoro alla corda sotto il titolo Utilisation de la longe pour le dressage à l’obstacle. In questo caso come dovremmo tradurre il termine dressage?
A Napoli, alla fine del Cinquecento, andarono a lavorare alla scuola di Pignatelli due cavalieri francesi, Salomon de La Broue e Antoine de Pluvinel. Tornati in patria scrissero i primi due importanti trattati di equitazione francesi e dettero l’avvio alla letteratura equestre francese. Salomon de La Broue scrisse Preceptes principaux que les bons cavallerisses doivent exactement observer en leurs Escoles, tant pour bien dresser les chevaux aux exercices de la guerre & de la carriere que pour les bien emboucher, pubblicato a La Rochelle nel 1593-1594. Antoine de Pluvinel scrisse il Maneige royal, pubblicato a Parigi nel 1623. Poi ripubblicato, dopo la ribellione degli allievi diretti di Pluvinel, con un testo diverso e le stesse tavole – è una non breve storia che mi tocca tralasciare – con il titolo Instruction du Roy en l’Exercice de monter à cheval, Paris 1625. Ma prima dei testi di La Broue e di Pluvinel vennero pubblicate in Francia le traduzioni di Grisone e di Fiaschi. I trattati di La Broue e di Pluvinel sono il fondamento della dottrina francese, che verrà, nel corso degli anni, migliorata e perfezionata fino ad arrivare al capolavoro di François Robichon de La Guérinière, Ecole de Cavalerie. Contenant la Connoissance, l’Instruction et la Conservation du Cheval, Paris 1729-1730 il primo tomo e 1731 il secondo tomo. I due trattati di La Broue e di Pluvinel non contengono altro che quello che essi hanno imparato in Italia, elaborato dalla loro cultura, dalle loro capacità e dall’ambiente raffinato in cui lavoravano, che ha, come oggi, una grande influenza sui cavalieri. Scrive il generale Mennessier de La Lance, a proposito del libro di La Broue: «E’ il primo trattato di equitazione scritto da un cavaliere francese, ma non in francese, come è stato detto, perché le traduzioni di Grisone e di Fiaschi sono precedenti alla pubblicazione della sua opera che gli valse, ancora in vita, una giusta celebrità» (Essai de bibliogrphie hippique, Librairie Lucien Dorbon, Paris 1915-1921, 2° tomo). La traduzione di Grisone compare in Francia nel 1559, ad opera di Bernard du Poy-Monclar, con il titolo L’Ecuirie du Sieur Federic Grison, gentilhomme napolitain; en laquelle est monstré l’ordre & l’art de choysir, dompter, piquer, dresser & manier les Chevaux, tant pour l’usage de la guerre qu’autre commodité de l’homme. A Paris, chez Charle Perrier, 1559. Grisone viene tradotto, più o meno fedelmente, in Inghilterra nel 1560 da Blundeville, in Germania nel 1566 da Hans Frölich, in Spagna da Antonio Flores de Benavides nel 1568. La traduzione di Fiaschi compare nel 1564 ad opera di François de Prouane, con il titolo Traicté de la manière de bien embrider, manier et ferrer les Chevaux: avec les Figures des mors de bride, tours & maniemens, & fers qui y sont propres. A Paris, chez Charles Perier, 1564. A pagina 10 del primo libro della quarta edizione de Le Cavalerice françois, A Paris, chez Charles du Mesnil, 1646, La Broue scrive: «Poiché nella lingua francese quest’arte difetta di termini appropriati, ho fatto ricorso alla lingua italiana, sia perché i Cavalieri ne fanno un uso più comune, sia anche perché i termini italiani hanno un non so che più gagliardo, sono più significativi, e possono spiegare il significato con una sola parola, mentre ne occorrerebbero diverse per farlo capire in francese. Nondimeno, poiché queste parole e altre dell’arte non sono conosciute da tutti i Francesi, li ho voluti sollevare da questa pena con la seguente interpretazione».
Seguono 47 termini, con a fianco la spiegazione. Molte di queste parole ancora in uso, deformate rispetto a quelle elencate, si trovano in un dizionario etimologico francese che conferma la loro derivazione dall’italiano. Eccole: cavalcadour, legeresse, fermesse, iustesse, aiuster, prestesse, ramingue, terraignol, carriere tride, parade, callate o basse, passege, manege, chevaler, bras, main, voltes, redoubler, racolt, serrer la volte, acoster, investir, serpeger o manier en bisse, esperonnade, risposte, escavessade, esbrillade, cavalcade, subettion condemnee, esquiavine, estrete, estrapade, estrapasser, manege terre à terre, ferme à ferme, la barre, l’escaillon, le canal, la barbe, emboucher, embrider, tirer, esparer et tirer, mouvemens d’esquine, esbalançons, boutades, escapades.
Cito soltanto una frase, il secondo paragrafo del secondo capitolo del primo libro – l’opera è divisa in tre libri – sempre a pagina 10, per mostrare come sia complessa, a ben riflettere, la scelta dei termini per tradurre un linguaggio tecnico e quanto sia importante la lingua italiana nell’equitazione del Rinascimento, come, d’altra parte il linguaggio musicale, la notazione nello spartito, che è rimasto italiano, in tutto il mondo. Prima di fare l’elenco dei termini dell’arte sopra riportato, l’Autore scrive: «Prima di tutto, dunque, Cavalerice, vuol dire propriamente Chevalier ben inteso, ed esperto nell’arte di ben addestrare i cavalli da combattimento e di maneggio [usa il termine carrière, il luogo aperto dove si lavorano i cavalli]: la quale arte gli Italiani chiamano anche l’arte del Cavalerice [che non è altro che la francesizzazione di cavallerizzo. Da notare che in Francia ha già lavorato Claudio Corte, autore de Il Cavallarizzo. Dichiara egli stesso di aver lavorato in Francia alla quarta carta del proemio dedicato «All’Illustrissimo et reverendissimo Gran Cardinale Alessandro Farnese»]. Se la parola escuyer non significasse altra cosa in Francia, che buon uomo di cavalli, me ne sarei servito: ma siccome può adattarsi a più altri significati ho trovato più opportuno usare una parola straniera, avendo avuto anche il parere di alcuni miei amici molto competenti in quest’arte».
Noi oggi ricorriamo al linguaggio equestre francese senza renderci conto che i termini francesi sono la traduzione di quelli italiani, passati in Francia durante il Rinascimento. Il più illustre maestro francese, il più accreditato nel mondo, La Guérinière, a pag. 79 della sua Ecole de Cavalerie (edizione in folio del 1733) scrive: «Bisogna rimarcare che la maggior parte dei termini di maneggio derivano dall’Italiano; perché gli Italiani sono i primi Inventori delle regole e dei princìpi di questa Arte». Il caso più clamoroso, e anche ridicolo, è l’uso dei termini che indicano i cosiddetti salti di scuola, courbette, croupade, cabriole, che sono la traduzione di corvetta (i saltini che fa il corvo quando è a terra per avanzare), di sgroppata e di capriola (il salto che fa il capro). Salti di scuola menzionati per primi dagli Italiani nei loro libri nel Cinquecento. Il colmo è rappresentato da piaffo (o far ciambella), diventato piaffer e piaffe, alla tedesca, pronunciato “piaf”, che non esiste, e passeggio, diventato passage. E’ un fatto semplicemente ridicolo. Com’è ridicolo colui che parla e scrive usando queste parole rubate e deformate. Ma ormai non rimane che arrendersi all’ignoranza (da «non sapere») diffusa nel paese che ha dato origine all’equitazione accademica.
Scrive La Guérinière a proposito della parola passage. «Passage, che si chiamava una volta, Pasège, dalla parola Italiana, Spasseggio, significa Promenade», passeggiata. Della volta scrive: «La parola volte è una espressione italiana, che significa circolo, rotondo o pista circolare. Bisogna notare che cosa si intende in Italia per volte: è il circolo che descrive un Cavallo che va semplicemente su una pista, e quella che noi chiamiamo volta, essi la chiamano Raddoppio. Ma in Francia la parola volte significa andare su due piste, di lato». Il che crea problemi di fedeltà al testo in caso di traduzione di un libro antico, se non si è competenti in materia equestre. Aggiungo che è un fatto anche moderno e contemporaneo. Ci sono in commercio traduzioni di ottimi libri che stravolgono il senso di quello che è scritto nel testo originale. L’appassionato legge e recepisce, impara l’errore, non potendo sapere che è sbagliato quel che legge.
Per testimoniare le diverse interpretazioni che una parola può comportare, aggiungo alcune considerazioni intorno a un sostantivo che, nel linguaggio equestre di oggi, rappresenta, soltanto, gli écuyers del Cadre Noir. L’écuyer è definito da François Baucher, nel suo Dictionnaire raisonné d’équitation, pubblicato nel 1830, «l’uomo che sa addestrare un cavallo, condurlo con precisione, e rendere conto dei mezzi che gli hanno procurato questi risultati». Aggiunge che «è il professore capace di formare veri uomini di cavalli». Escuier (1080), escuyer (1549), écuyer (1701) derivano dal basso latino scutarius che ha il significato di «colui che porta lo scudo» (in francese écu). Solo dal XVII secolo ha preso in Francia il significato di «maestro di equitazione», poi quello di «colui che monta bene a cavallo». Il Littré, dizionario della lingua francese in sette volumi, elenca i seguenti significati per le lingue estere: spagnolo, escudero; portoghese, escudeiro; inglese, squire, italiano, scudiero. Salomon de La Broue intitola la sua opera nel 1602, Le cavalerice françois e non L’escuyer françois, perché, scrive (pag. 10 del primo libro, edizione del 1686, 1^ ed. 1602), «se la parola escuyer non significasse altra cosa in Francia che buon uomo di cavalli me ne sarei servito. Ma siccome si può adattare a molti altri significati ho trovato più rapido usare una parola straniera, avendo anche avuto il consiglio di alcuni amici molto capaci in quest’arte». I «molti altri significati» sono elencati sul Dictionnaire de la langue française di Emile Littré (1956), sul Dictionnaire de la langue française di Paul Robert (1959), in nove volumi. I significati sono: écuyer de cusine (1393), primo ufficiale della cucina del re o di un principe; écuyer tranchant (1429), colui che taglia la carne; écuyer de bouche (1680), che serve alla tavola de re; écuyer de main, colui che dà la mano a un principe o a una principessa per scendere da una vettura; o semplicemente écuyer, «l’intendente delle scuderie di un principe». La «parola straniera» che usa La Broue è appunto cavalerice, derivata dall’italiano cavallerizzo o cavallarizzo. La Broue aveva lavorato cinque anni a Napoli con Giovanbattista Pignatelli. E in Francia aveva già lavorato Claudio Corte. D’altra parte anche la parola cavalier deriva dall’italiano «cavaliere».
Per finire non può mancare un’ultima perla: oggi, in Italia, per distinguere i due tipi di monta, si dice e si scrive, anche in alto loco, «monta western» e «monta inglese». Con buona pace della storia.
Autore
Paolo Angioni