Per comprendere al meglio la storia della Parte Guelfa occorre ben indagare la storia della potenza della dinastia francese degli Angiò. Se il Medioevo è stato, per riprendere un’espressione cara a Giovanni Tabacco, un’epoca di sperimentazioni del potere, tentate con una vivacità e una spregiudicatezza impensabili in altre epoche, la potenza della dinastia angioina ne rappresenta un caso di studio esemplare. Essa nacque da un progetto che poteva essere concepito solo nelle peculiari condizioni politiche, e ideologiche, dell’Europa duecentesca; e forse per questo non ebbe un successo duraturo, ma per più d’un secolo apparve ai contemporanei come una delle grandi potenze del mondo ch’essi conoscevano, nonostante, anzi forse proprio per la sua natura ibrida. Il punto di partenza della dominazione angioina è un principato, come ce n’erano tanti, la contea di Provenza: una terra ricca, attraversata da flussi commerciali importanti, dotata di porti che ne garantivano la proiezione mediterranea, ma che di per sé non offriva risorse tali da consentire alla dinastia un ruolo da protagonista sulla scena europea.
Ma gli Angiò erano un ramo cadetto della monarchia capetingia, la contea acquisita per eredità era assimilata in pratica a un appannaggio della corona francese, e questo è già sufficiente a spiegare il salto di qualità del loro potere: quando Carlo d’Angiò cominciò nel 1259 a espandere la sua influenza al di qua delle Alpi, formalmente il suo rango non era diverso da quello, poniamo, d’un conte di Savoia, ma dietro di lui c’era il regno di suo fratello, con tutto ciò che comportava in termini di risorse materiali, militari e ideologiche.
Nel 1266, il conte di Provenza è incoronato dal papa re di Sicilia, e conquista il suo nuovo regno. Anche se mutilato abbastanza presto proprio della Sicilia, e ridotto al Mezzogiorno continentale, quello che per comodità noi chiamiamo regno di Napoli rappresenta una base di potere enormemente superiore alla Provenza. I due ambiti amministrativi non saranno mai integrati; le risorse, s’intende, affluiscono a un tesoro comune, vi è circolazione di ufficiali e di esperienze, ma la contea e il regno rimangono, sotto i sovrani angioini, due ambiti giuridicamente separati, tenuti in feudo l’uno dal re di Francia, l’altro direttamente dal papa. E già questa coesistenza giustificherebbe la definizione della potenza angioina come una creazione ibrida, formata dall’unione personale d’un principato, alle cui spalle sta un potente regno amico, e d’un regno autonomo, alle cui spalle sta però un’altra potenza amica quanto ingombrante, la Chiesa di Roma. A questa costruzione politica bicefala corrispondono però un progetto ideologico e un arsenale propagandistico monolitici. La potenza angioina è l’incarnazione, e anzi diciamo pure l’invenzione, di quel fronte guelfo che sembra in grado di imporre un’egemonia non soltanto italiana, ma addirittura europea, mettendo insieme la posizione geografica del regno di Napoli, la potenza militare del regno di Francia, l’influenza spirituale del papato, e il denaro dei banchieri fiorentini. Si sa che in quel fronte le incrinature non tardarono in realtà a manifestarsi, e che fra Due e Trecento la coordinazione guelfa poté mantenersi solo al prezzo di faticosi compromessi; ma questa è comunque una terza dimensione che si aggiunge alla potenza angioina, e che la rende ancor più ibrida: accanto alla contea e al regno, essa comprende quell’insieme fluttuante di città che di volta in volta accettano la signoria angioina, accogliendo vicari e podestà di nomina regia. Un panorama mutevole, che è impossibile cartografare con precisione: anche solo considerando la più importante, e forse la più fedele, di quelle città, Firenze, impressiona la facilità con cui, nell’alternarsi delle fazioni, umori ostili o insofferenti verso l’egemonia angioina si succedono alle attestazioni più servili di obbedienza.
Instabile, dunque, questa terza gamba del dominio angioino, che si aggiunge alla contea e al regno; ma fondamentale per sostenere le ambizioni della dinastia, anche perché potenzialmente è la più robusta delle tre, in termini di risorse militari e soprattutto economiche. È in questo contesto, d’una dominazione tripartita, che dobbiamo collocare la presenza angioina nell’Italia nord-occidentale. Sorge allora l’interrogativo se l’organizzazione dei domini angioini, qui, sia da assimilare più alla struttura di potere della contea di Provenza, giuridicamente consolidata e geograficamente coerente, o piuttosto a quella dominazione vasta ma precaria, a geometria variabile, che i successi del blocco di potere guelfo e la conseguente soggezione di tante città al re di Napoli avevano costituito nel resto dell’Italia padana e centrale. Questi due modelli di dominazione territoriale hanno in apparenza ben poco in comune; eppure il dominio angioino in Piemonte condivide tratti sia dell’uno, sia dell’altro. Per un verso, infatti, le modalità delle convenzioni e delle sottomissioni concordate con città e signori del Piemonte non erano molto diverse da quelle che la dinastia stipulava di volta in volta col variegato panorama nell’ordine cronologico degli avvenimenti, dei comuni e dei signori guelfi d’Italia; quelle situazioni in cui una dinastia principesca, come i marchesi di Saluzzo o di Monferrato, si riconosceva subordinata al re, mantenendosi però in pratica indipendente, come pure la brevità di certe sottomissioni di città importanti, stipulate con ogni solennità e poi rinnegate dopo pochissimi anni, sono tutti aspetti che rimandano alla fluidità dello schieramento guelfo italiano piuttosto che alla soggezione ereditaria della Provenza. Ma la penetrazione angioina in Piemonte era cominciata fin dal 1259: ben prima, cioè, della conquista del regno. È il conte di Provenza, non ancora il re di Sicilia, e tanto meno il leader dello schieramento guelfo, che s’affaccia al di qua delle Alpi, tentando di allargare il suo potere. In quei domini, il conte insedia subito un siniscalco, che dal punto amministrativo ha un mandato ricalcato su quello del siniscalco di Provenza; al suo fianco opera un nucleo di funzionari modellato, anche qui, su quelli che governano dall’altra parte delle Alpi; e già all’inizio del Trecento Carlo II deciderà di organizzare i domini subalpini in una contea a sé stante, una contea di Piemonte che è visibilmente concepita come un duplicato della contea di Provenza, e che sarà sempre strettamente associata ad essa, sia dal punto di vista amministrativo, sia per quanto riguarda la sua collocazione nell’asse ereditario della dinastia. Ecco perché l’esperimento angioino nell’Italia nord-occidentale merita di essere nuovamente oggetto di analisi, settantacinque anni dopo il libro di Gennaro Maria Monti che ne ricostruì minuziosamente la vicenda politico-militare.
Il Piemonte angioino è un microcosmo in cui si riproducono alcuni fra i meccanismi politici cruciali dell’Europa due e trecentesca. Basti pensare che quando il conte di Provenza comincia ad allargare il suo potere al di qua delle montagne, un’altra dinastia francofona, titolare d’un principato transalpino, è impegnata da tempo in un processo analogo. Sono i conti di Savoia, che in origine non sono meno estranei all’Italia padana di quanto lo siano i conti di Provenza. Un primo confronto che varrebbe la pena di istituire è dunque quello fra i modi di espansione delle due dinastie comitali, e fra gli atti formali in cui quell’espansione si traduce, che siano fedeltà vassallatiche di famiglie signorili, o stipulazione di patti con comuni urbani. Senza dimenticare che se la contea angioina di Piemonte, proprio come la contea di Savoia, costituiva un mosaico di signorie e di comunità, tenuto insieme da una molteplicità eterogenea e sempre rinegoziata di accordi ed omaggi, lo stesso valeva anche per la contea di Provenza, a cui solo da pochi anni lo stile di governo accentratore di Carlo d’Angiò era arrivato a conferire una maggiore stabilità, stroncando opposizioni di dinastie baronali e di comuni urbani. Certo, la contea angioina di Piemonte è sempre stata considerata un organismo effimero; e tuttavia è utile indagare che cosa comportava, dal punto di vista amministrativo, la costituzione d’una contea: verificare il funzionamento concreto delle prerogative comitali, dalla fiscalità alla monetazione; studiare il personale mandato a formarne i quadri, composto, a quanto pare, soprattutto da provenzali e da napoletani; e ancora, verificare quali procedure vennero messe in atto per la consultazione dei nobili e delle comunità, giacché è difficile immaginare che un sovrano trecentesco potesse ignorare del tutto il problema della consultazione assembleare, una volta che aveva articolato un paese soggetto riconoscendogli un’unità territoriale. E infatti abbiamo testimonianze, sia pure sporadiche, di assemblee, e almeno un caso di un’assemblea convocata non per mandato del siniscalco, ma per iniziativa della più importante fra le località soggette in quel momento, Cuneo, “pro bono statu” del dominio regio6. C’era dunque la prospettiva che signori e comunità andassero oltre il rapporto individuale di dedizione che li legava alla dinastia e cominciassero a pensarsi, e ad operare, come un paese unitario; come accadde poi nei domini sabaudi, proprio attraverso la pratica sistematica del confronto assembleare, questo spazio privilegiato della politica nei regni e nei principati del tardo Medioevo.
Ma la dominazione angioina in Piemonte si propone come caso di studio anche dei meccanismi di ricomposizione territoriale ovunque operanti in quei secoli, innanzitutto nei confronti del pulviscolo dei poteri signorili locali. Il processo con cui una dinastia signorile, un dominatus loci, riconosce la supremazia feudale d’un principe, formalizzata attraverso la pratica del feudo oblato, è com’è noto uno dei principali meccanismi con cui venne ricostruito il potere principesco e regio. E sarebbe interessante allora verificare, ad esempio attraverso lo studio delle formule d’investitura, se il conte di Provenza, accettando la sottomissione di nuclei signorili subalpini, attingesse a una cultura e un formulario feudali già sperimentati in area francese, e se vi sia sotto questo aspetto una differenza rispetto alle procedure utilizzate dai conti di Savoia e dalle dinastie marchionali piemontesi. Ma accanto ai signori locali ci sono i comuni urbani. E sotto questo aspetto l’espansione angioina non appare tanto diversa da quei coordinamenti di comuni urbani intorno a un principe o a un grosso signore rurale, che si erano manifestati nei decenni centrali del Duecento, dando origine a dominazioni come quella di Ezzelino da Romano, di Oberto Pelavicino, di Guglielmo VII di Monferrato: dominazioni precarie, di non lunga durata, ma che segnarono l’apertura di una fase nuova nella storia delle città italiane. E allora sarà interessante verificare se il conte di Provenza, poi divenuto ben presto re di Sicilia, si propose alle piccole e meno piccole città subalpine in termini paragonabili a quelli praticati da quegli immediati predecessori ghibellini, intrecciando seduzione ideologica e sostegno partigiano, aiuto militare e larvata minaccia, per crearsi in ciascuna città una base di consenso prima di farsene concedere formalmente la signoria; analizzare la politica seguita nei confronti dei partiti e delle fazioni cittadine, e in particolare dei conflitti fra nobili e società di Popolo; e ancora, verificare se e quanto la diversa tradizione politica e giuridica d’Oltralpe concorse a caratterizzare i patti negoziati dai comuni con la dinastia. Ma la dominazione angioina in Piemonte durò a lungo, sia pure con interruzioni. Se al suo inizio appare logico paragonarla con la prima generazione dei raccordi regionali, quelli tentati appunto da personaggi come i da Romano o il Pelavicino, più avanti il confronto sarà da istituire piuttosto con nuove sperimentazioni, destinate alla lunga durata, e in primo luogo lo stato visconteo. Quello stato con cui gli Angioini, nel Trecento, entrarono in competizione diretta, e di cui oggi conosciamo sempre meglio, grazie alle ricerche di Giorgio Chittolini e dei suoi allievi, modi di espansione e dinamiche politiche, sia nella forma feudale rivolta ai signori rurali, sia negli accordi negoziati con i comuni urbani: tutto un ambito che sarebbe interessante paragonare, nella formulazione e nel contenuto di patti e investiture, con il coevo procedere degli Angioini. Ma c’è ancora un altro aspetto, l’ultimo, che colpisce nei modi di affermazione della dinastia angioina in Piemonte.
Penso alla sua capacità di presentarsi attraverso l’invio nel paese di un leader politico e soprattutto militare, un rappresentante munito di risorse finanziarie e di un esercito, e in grado perciò di farsi accettare come coordinatore della moltitudine dei poteri locali. Perché questo era il siniscalco angioino, assai più che non un funzionario inviato ad operare pacificamente entro quadri amministrativi già solidi: e fino al 1276 portava, significativamente, il titolo assai generico di siniscalco di Lombardia, e anche in seguito, ancorato ormai stabilmente al titolo di siniscalco di Piemonte, continuò a disporre d’un mandato esteso “in partibus Lombardie”. Non dobbiamo dimenticare che ancora a quest’epoca, nell’Italia dei poteri locali, gli apparati di governo sono deboli e precari, la loro legittimazione sempre discussa, le loro risorse limitate; e la comparsa d’un grosso personaggio accompagnato da cinquecento o mille cavalieri, ben equipaggiati e pagati per qualche mese, era ancora sufficiente per ribaltare gli equilibri di potere su scala regionale perfino in Toscana, a maggior ragione in Piemonte. Sotto questo aspetto sarebbe interessante analizzare il mandato e le risorse di cui disponevano i siniscalchi angioini operanti in Piemonte, e verificare fino a che punto l’invio d’un personaggio sufficientemente energico, e adeguatamente sostenuto, abbia contrassegnato i momenti di maggiore efficacia della potenza angioina: esattamente come le fortune imperiali o pontificie in Italia dipesero spesso dalla nomina d’un vicario o d’un legato capace e dai mezzi posti a sua disposizione. È inevitabile, oggi, un moto di rimpianto al pensiero di come sarebbe più ricca la nostra conoscenza di tutti questi meccanismi, senza l’incendio degli archivi angioini ad opera dei nazisti nel 1943. Non sono più, oggi, i tempi in cui il Gabotto, commentando la pubblicazione di taluni documenti angioini su Alba fatta dal Tallone, lo elogiava per aver attinto “fin dall’Archivio di Stato di Napoli”. Se quegli archivi esistessero ancora, molti degli argomenti che saranno trattati in questo convegno potrebbero essere oggetto di analisi ben più approfondita. Ma è pur vero che la mutata temperie storiografica ci eviterà, in compenso, di ricadere negli schematismi di quegli stessi storici piemontesi che suscitavano la giusta irritazione del meridionale Monti per il “malinteso amor patrio” che li portava a deplorare all’unisono la dominazione “straniera” degli Angioini, “qualificando di ‘funesto’ il consiglio e di ‘malo’ l’esempio delle città piemontesi” che si sottomettevano agli Angiò, e accusando la dinastia “di ‘sfrenata ambizione’, di ‘cupidigia’ e di ‘insaziabilità’”, mentre poi esaltavano “con una serie di alti elogi i Savoia che pur perseguirono allora una stessa politica di espansione e di conquista”. Se ricordiamo queste polemiche d’altri tempi non è per sorridere di quei predecessori senza il cui lavoro noi non potremmo neppur cominciare il nostro, ma per sottolineare che il tema della dominazione angioina in Piemonte, sebbene poco studiato, e anzi forse proprio per questo, ha un suo spazio non privo di risvolti intriganti nel panorama della medievistica italiana.
Autore
Alessandro Barbero
8 Lo nota, non senza sarcasmo, il MONTI, La dominazione angioina in Piemonte cit., p.