Ogni cultura possiede i suoi miti per spiegare l’odio tra gli uomini. La cultura nella quale siamo immersi si affida al mito di Caino e Abele. Per quanta poca fiducia si possa avere nel genere umano, è un fatto che l’odio, diversamente dall’amore, necessita sempre di una spiegazione e di un colpevole. Ciò di cui parleremo è un mito sull’origine dell’inimicizia politica, dello spirito fazioso. Siccome si ambienta nella Firenze medievale e siccome ne ha parlato Dante, il mito ci è noto fin dai tempi della scuola. Gli antichi cronisti gli attribuirono la nascita dell’odio tra guelfi e ghibellini e in Italia non c’è scrittore che non vi faccia riferimento almeno una volta all’anno. Anche questo mito, ovviamente, ha il suo Abele – un giovane innamorato e biancovestito di nome Buondelmonte dei Buondelmonti – e il suo Caino – un nobile irascibile e altezzoso di nome Mosca Lamberti.
Giglio Guelfo e Giglio Ghibellino
La storia si ambienta nella Firenze di inizio Duecento: una città già potente, ma lontana dagli splendori dell’età di Dante e di Giotto. Si basa su un vero fatto di sangue accaduto nel 1216. Dell’episodio giravano diverse versioni, forse all’inizio tramandate oralmente. La vicenda ci è nota, principalmente, per merito di Giovanni Villani, il quale scriveva però negli anni Trenta del Trecento, a più di cent’anni di distanza. Un giovane di nobile casato campagnolo, Buondelmonte dei Buondelmonti, doveva sposare una gentile donzella cittadina degli Amidei. Cavalcando per la città, Buondelmonte venne chiamato da una donna dei Donati, la quale – mostrandogli una splendida figlia – gli suggerì di lasciare l’Amidei per sposare questa. L’altera matrona insinuò che l’altra, oltre a essere meno bella, era anche di casato meno illustre e che, dunque, le nozze avrebbero sminuito il rango di Buondelmonte. Sedotto dalla bellezza della ragazza e dalle parole di sua madre, Buondelmonte si fidanzò ufficialmente con lei lo stesso giorno in cui avrebbe dovuto sposare l’altra. Era (lo sappiamo da un’altra fonte) giovedì 10 febbraio 1216 ovvero 1215, secondo il computo fiorentino degli anni. L’offesa, gravissima, richiedeva immediata riparazione. Gli Amidei fecero consiglio con gli amici e i parenti per decidere il da farsi. Fu in quella circostanza che Mosca Lamberti emise la fatale sentenza: «Cosa fatta capo ha», ovvero: «Risolviamo la faccenda definitivamente». Si deliberò che la vendetta dovesse compiersi con il massimo della pubblicità, così che tutti ne comprendessero le motivazioni. Vi fu quindi una regia sapiente: furono scelti i luoghi, i tempi e i simboli, così da conferire al fatto una funesta e memoranda ironia.
Funerali di Buondelmonte, Francesco Saverio Altamura, 1860, Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma
Il giorno in cui Buondelmonte doveva sposare la Donati, la mattina di Pasqua del 1216, egli, venendo dai suoi possessi in Oltrarno, passò il Ponte Vecchio in abito di gala e su un destriero bianco. Lo aspettavano gli Amidei di fronte a casa loro, al capo settentrionale del ponte, insieme ai loro consorti armati: Lamberti, Fifanti, Uberti, da Gangalandi. Sorgeva in questo punto un’antica statua equestre, molto rovinata dal tempo, che i Fiorentini attribuivano al dio della guerra, Marte, primo patrono della loro città. Buondelmonte fu aggredito, gettato a terra e finito proprio ai piedi della statua. Villani non indulge alle ragioni dei carnefici: fu l’opera di questi assassini a determinare il sorgere delle «maladette parti guelfa e ghibellina». Ghibellini furono, da allora in poi, i consorti degli Amidei, guelfi quelli dei Buondelmonti. Mi perdonino i lettori del Portale «Storia di Firenze» se uso il termine straniero debunking al posto di ‘demistificare’. La cultura contemporanea conferisce nuovo vigore alle vecchie parole solo al prezzo della traduzione. Comunque, se siete interessati alle leggende metropolitane, ai meccanismi del loro successo e al loro potere distorsivo, siete nel posto giusto. Che si tratti di elicotteri che lanciano serpenti o di autostoppisti fantasma, tutti, da adolescenti, ci siamo caduti almeno una volta. Il punto è che, anche da adulti, rischiamo di credere alle leggende più antiche, specie se consacrate dalla tradizione letteraria. Pur essendo reale la storia della vendetta ai danni di Buondelmonte, sono falsi i significati politici attribuiti da Villani a quel fatto. È falso il significato più evidente e dichiarato: l’origine della divisione tra guelfi e ghibellini. È falso anche un altro significato, insinuato tra le righe dal cronista popolano, che cioè sia stata la propensione dei nobili alla vendetta a determinare degli odi inestinguibili, inusitati e politicamente perniciosi.
La torre dei Buondelmonti in Via delle Terme
Evidenziamo una prima anomalia: gli scrittori cronologicamente più prossimi alla vicenda non ne parlano. È solo dagli anni Settanta del Duecento che la storia compare nelle fonti scritte, arricchendosi di particolari pittoreschi via via che ci si allontana nel tempo. Questo meccanismo di arricchimento a valanga, potenzialmente distorcente, è ben noto a chi si occupa di cultura orale, o a chi, banalmente, abbia giocato almeno una volta nella vita al ‘telefono senza fili’. Certo non rende più credibile il racconto. Un’altra anomalia riguarda le relazioni. Sembra che Buondelmonte fosse un estraneo per tutti tranne che per gli Amidei. L’indagine archivistica mostra invece che, prima del 1216, la sua famiglia era alleata con quelli che sarebbero stati i suoi assassini: il matrimonio non era semplicemente una questione di cuore, dunque. La terza anomalia sta nella rappresentazione di vittima e carnefici. Leggendo Villani par di capire che appartenessero a generazioni diverse: Buondelmonte giovane, i suoi assassini maturi. Si scopre, invece, che erano più o meno coetanei: tutti uomini maturi. Buondelmonte, addirittura, era al secondo matrimonio, essendo rimasto vedovo della prima moglie poco prima. Infine, i cosiddetti guelfi (Donati) e ghibellini (Amidei, Uberti, Lamberti, Fifanti) continuarono a far politica insieme almeno fino alla fine degli anni Trenta. Tutto questo toglie già un po’ di poesia alla vicenda: nessun giovane senza macchia e senza paura, nessun vecchio rancoroso e superbo. Ma ciò che più ci fa capire quanto Villani potrebbe aver truccato le carte è un altro racconto della storia, risalente ai primi anni del Trecento.
La torre degli Amidei in Por Santa Maria
Abbiamo detto che, tra le righe, Villani insinua un sospetto infamante che non vale solo per gli omicidi (il gruppo dei ‘ghibellini’), ma per tutto il mondo della vecchia nobiltà, alla quale apparteneva anche Buondelmonte. All’origine dell’odio c’è il culto dell’onore e la pratica della vendetta: le due bestie nere del movimento popolare, egemone a Firenze dalla fine del Duecento. Proprio in quel contesto Villani si era formato e si era affermato politicamente: non meraviglia che ne avesse sposato gli ideali. La guerra ideologica che i popolari avevano ingaggiato con i nobili – ribattezzati ‘magnati’ – si fondava proprio sulla loro incapacità di mantenere il «buono e pacifico stato» della città a causa dell’irraginevole culto dell’onore. Studi recenti hanno invece dimostrato che la politica comunale, la coesione e la convivenza sociale tradizionali, si basavano proprio sul sentimento di onore della città e dei vari gruppi che la costituivano. L’onore (honor), infatti, non era un concetto individuale, ma collettivo: ogni gruppo (familiare, professionale, militare, vicinale) aveva il suo honor, e lo garantiva attraverso azioni il più possibile collettive. Tra queste, naturalmente, c’era anche la punizione di chi aveva leso l’honor: la vendetta. Le stesse leggi del Comune, ancora valide al tempo di Villani, stabilivano che queste vendette erano lecite: bastava che fossero decise collegialmente dal gruppo e che non fossero esagerate rispetto all’offesa. Per quanto possa ripugnare alla nostra sensibilità di europei del XXI secolo, nei contesti in cui manca lo Stato la giustizia si basa spesso sul ‘fai da te’. Dell’omicidio di Buondelmonte esiste però una versione significativamente diversa. Ce la tramanda una cronaca anonima, più antica di quella del Villani, ma non di molto. Il contesto nel quale essa fu scritta era sempre popolare. L’autore, però, sembra volerci offrire una versione più neutrale dei fatti: in essa ‘guelfi’ e ‘ghibellini’ hanno le stesse responsabilità. L’anonimo ottiene questo effetto di equanimità spiegandoci che gli ‘omicidi’ avevano seguito alla lettera il codice della vendetta.
L’uccisione di Buondelmonte, Giovanni Villani, Nuova Cronica, Biblioteca Vaticana
L’anonimo racconta che il matrimonio tra Buondelmonte e l’Amidei era in realtà un atto riparatorio. Nessuno pensi a furtivi incontri tra i due prima del fidanzamento. Buondelmonte doveva rimediare a uno sgarbo compiuto, tempo prima, contro Odarrigo Fifanti. Odarrigo, consigliatosi coi suoi su come ripristinare il proprio onore, aveva chiesto e inizialmente ottenuto che Buondelmonte sposasse sua nipote, la giovane Amidei, appunto. Nessun modo più tradizionale per risolvere la contesa: fare del proprio nemico personale un parente. Con il suo colpo di testa e il suo nuovo fidanzamento Buondelmonte si era dimostrato un matto, un irresponsabile. Ciononostante Odarrigo non voleva la sua morte. Nel secondo meeting organizzato coi suoi pari non fu lui a proporre di uccidere il reo. A farlo fu Mosca Lamberti, ma il suo fu un consiglio assennato, vista l’assoluta inaffidabilità di Buondelmonte. Decisione collettiva e ponderata, dopo grave e reiterata offesa: le regole vigenti erano state rispettate. Non è detto che il racconto dell’anonimo sia più vero di quello di Villani. Distribuire torti e ragioni in parti uguali non significa sempre fare un servizio alla verità. Entrambi gli autori avevano i loro condizionamenti personali, ideologici. Il fatto che abbiamo ben chiari quelli di Villani non fa di lui un bugiardo peggiore rispetto agli autori che conosciamo meno. Il senso della demistificazione, del debunking, non sta tanto nel dimostrare la falsità delle storie in cui abbiamo creduto. Sta piuttosto nell’illustrare la mutevolezza dei contesti che hanno contribuito a farcele credere vere.
Autore
Enrico Faini