La morte di Corso Donati, scolpita in versi da Dante con una vendicativa perfidia, è quasi divenuta simbolo del destino che rovescia chi si è innalzato con smodata superbia. Il 6 ottobre 1308, mentre a cavallo cerca di fuggire fuori Firenze, lasciato solo dai molti che lo avevano seguito e osannato, tranne Gherardo Bordoni che ne condividerà la morte, il prode cavaliere Corso cade da cavallo; ma rimasto impigliato nella staffa viene trascinato e martoriato nella polvere fin nei pressi del convento vallombrosano di San Salvi dove viene finito a colpi di lancia da fiorentini e mercenari catalani. In tal modo il “gran barone” – come era stato soprannominato – pagava la pretesa di volersi porre al si sopra degli altri cittadini e delle leggi pur avendo saputo condurre di fatto con successo una spregiudicata vita politica che aveva visto anche l’affermazione della sua fazione dei Neri, il gruppo più intransigente del ceto dirigente guelfo.
Con tutta la sua vita Corso sembra quasi incarnare il prototipo del magnate, diretta derivazione del miles cittadino. Di famiglia appartenente alla nobiltà cittadina, Corso riceve l’investitura cavalleresca di Parte Guelfa assai giovane e presto inizia a distinguersi nei consigli cittadini per il suo sostenere una politica militarmente aggressiva. Ricopre, inoltre, molto volentieri incarichi di podestà o capitano del Popolo in altri città guelfe, tra le quali spiccano Bologna, Padova, Pistoia e Parma, e coglie ogni altra occasione di attività bellica, magari con un ruolo di comando. In tal senso ottiene un notevole successo politico e di immagine, quando a capo del contingente di cavalleria formato sopratuttto da pistoiesi e lucchesi alla battaglia di Campaldino, nel periodo della quale volgeva funzione di Capitano del Popolo a Pistoia, ribellandosi alle disposizione fissate prima dello scontro, lancia le truppe a lui affidate come riserva nella mischia e contribuisce in modo decisivo alla vittoria dello schieramento guelfo fiorentino. Significative le parole – vere o meno che siano – che il cronista Giovanni Villani gli fa pronunciare in tale occasione: “Se noi perdiamo, io voglio morire nella battaglia co’ miei cittadini, e se noi vinciamo, chi vuole vegna a noi a Pistoia per la condannagione”.
Corso Donati fa liberare dei prigionieri politici raffigurato nel Manoscritto Chigiano della Cronica di da Giovanni Villani conservata nella Biblioteca Vaticana
Ma Corso incarna anche i peggiori vizi della mentalità magnatizia. Arrogandosi un ruolo di capofamiglia nel presunto interesse economico-politico del clan familiare, obbliga la sorella Piccarda a rompere il voto monacale e a sposarsi con Rossellino Della Tosa; e in modo simile costringe anche la sorella Ravenna, rimasta vedova, a rinunciare al suo proposito di affidarsi come conversa al monastero di Ripoli, per poter essere lui, invece che il monastero, a svolgere il ruolo di tutore della sorella, dei nipoti minorenni e soprattutto dei loro beni. Insofferente alla giustizia comunale arriva a cercare di liberare con la forza un magnate suo sodale, Totto dei Mazzinghi, condannato a morte per omicidio. E in generale interpreta la lotta politica nella Parte guelfa come strumento per l’affermazione o le vendette proprie o della famiglia: la ben nota aspra rivalità con la famiglia dei Cerchi che spezzò in due fazioni il ceto dirigente guelfo, nasce non solo da divergenze politiche, ma anche dal sommarsi di questioni matrimoniali (dietro alle quali c’erano poi mire su ricche doti) a invidie e risentimenti personali. Riuscito a uscire sostanzialmente indenne e non sminuito – anche grazie a circostanze fortunate – dal periodo di più intensa lotta antimagnatizia guidata da Giano Della Bella negli anni fra 1292 e 1295, Corso Donati rafforzò poi la propria posizione politica (e l’ambizione) anche grazie al rapporto personale che riuscì a stringere con papa Bonifacio VIII. Questi, dopo aver sostenuto Corso in un momento per lui di difficoltà politica in Firenze nel 1299-1300, utilizzandolo come suo podestà a Orvieto e in Massa Trabaria e poi ospitandolo a Roma, ne fece quindi suo un alleato nei piani di assoggettamento della Toscana al papato. Con l’arrivo in Firenze di Carlo di Valois nel novembre 1301, come paciere pontificio, Corso rientrò facilmente in città e in pochi giorni,armi alla mano e col sostegno dello stesso Valois, portò al potere la fazione dei Neri.
L’uccisione di Corso Donati dipinta nel Manoscritto Chigiano della Cronica di da Giovanni Villani conservata nella Biblioteca Vaticana
Il predominio, rafforzato nei mesi seguenti con condanne e proscrizioni, vacillò nel 1304 per l’opposizione di alcune famiglie in particolare dei Della Tosa, ma fu Corso stesso con il suo consueto atteggiamento sprezzante a prepararsi la rovina: la sua intenzione di risposarsi con la figlia di Uguccione della Faggiola, il leader del ghibellinismo toscano, lo svelò come un uomo che puntava a superare il blocco sociale guelfo-magnatizio per cercare ovunque alleanze che lo portassero a uno stabile potere personale. Contro di lui si rivoltarono allora anche alcuni fra i più potenti casati magnatizi guelfi, oltre ai Della Tosa, i Pazzi, i Brunelleschi, gli Spini. Finita l’estate del 1308, tornato a Firenze da un semestre come podestà a Treviso, Corso iniziò a prepararsi a una resa dei conti in città cercando alleanze interne ed esterne chiedendo aiuti militari ai conti Guidi, ai Bianchi fuoriusciti e appunto al neo suocero ghibellino Uguccione della Faggiola, ma gli avversari riuscirono a prevenirlo. La mattina del 6 ottobre, riunite le compagnie del Popolo, con l’appoggio dei mercenari catalani del Comune e di molti magnati, davanti al Palazzo dei Priori fu tenuto un processo sommario che condannò Corso a morte. Gli armati si diressero quindi alla sua residenza, dove Corso si era barricato sperando in un soccorso delle truppe di Uguccione, visto che i sostenitori interni lo avevano ormai abbandonato. Dopo ore di resistenza, quando seppe che gli uomini di Uguccione erano stati fermati nei pressi della città, Corso tentò la fuga, ma questa volta il Gran Barone non ebbe fortuna e, caduto da cavallo, terminò la sua avventura e la sua vita ignominiosamente nella polvere.
La morte di Corso Donati nel monastero benedettino vallombrosano di San Salvi raffigurato da Raffaello Sorbi
“Or va”, diss’el, “che quei che più n’ha colpa,
vegg’io a coda d’una bestia tratto
inver’ la valle ove mai non si scolpa.
La bestia a ogne passo va più ratto,
crescendo sempre, fin ch’ella il percuote
e lascia il corpo vilmente disfatto…”
Dante, Divina Commedia, Purgatorio, Canto XIV
Autore
Marco Bicchierai