La storiografia ha mostrato negli ultimi decenni un forte interesse in merito al ruolo politico femminile tra le fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento, ma ha faticato a considerare la declinazione militare di questa dimensione come qualcosa di organico alla funzione di governo. Tuttavia, come ha scritto Sophie Cassagnes-Brouquet, le parole per designare la donna cavaliere «existent au Moyen Âge, en latin comme dans les langues d’oïl et d’oc, non seulement pour désigner la femme d’un chevalier, mais aussi la cavalière, celle qui combat à cheval, ou encore la dame qui appartient à un ordre de chevalerie» (Cassagnes-Brouquet, p. 9). Il prototipo di fede è coraggio è naturalmente Giovanna d’Arco, la santa guerriera, spinta da voci interiori a impegnarsi per la liberazione della Francia. Distintasi per il valore sul campo di battaglia e per il suo modo intenso di vivere il messaggio cristiano, liberò Orléans, fu catturata, processata per eresia, arsa viva il 30 maggio 1431 e riabilitata per diventare finalmente patrona di Francia.
Giovanna d’Arco in armatura in un dipinto del XV secolo
Tutti ne conoscono il nome. Pochi, pochissimi, la vera storia. Giovanna d’Arco nacque da una famiglia di contadini, a Domremy nel 1412. Durante la Guerra dei Cento anni (1337-1453) si sentì chiamata da Dio a soccorrere il re di Francia – le famose voci interiori di cui parlò lei stessa più volte – ed a cacciare gli Inglesi dal suolo francese. Nel 1429 raggiunse il Delfino Carlo, il futuro Carlo VII, nella città di Chinon, convincendolo ad affidarle il compito di tentare un’offensiva contro gli Inglesi. Riuscì a farsi accreditare presso la corte grazie a carismi straordinari che suscitavano ammirazione. Giovanna riformò l’organizzazione dell’esercito, rimotivandolo, trascinando con il suo esempio le truppe francesi e imponendo uno stile di vita rigoroso, quasi monastico: fece allontanare le prostitute che seguivano i soldati, bandì ogni violenza o saccheggio, vietò che i militari bestemmiassero; impose loro di confessarsi e fece riunire intorno al suo stendardo l’esercito in preghiera due volte al giorno, al richiamo del suo confessore, Jean Pasquerel. Il primo effetto fu quello di instaurare un rapporto di reciproca fiducia tra la popolazione civile ed i suoi difensori i quali, invece, avevano la pessima abitudine di tramutarsi da soldati in briganti quando non erano impegnati in azioni di guerra. Soldati e capitani, contagiati dal carisma della giovane, sostenuti dalla popolazione di Orléans, si prepararono alla riscossa.
Liberata Orleans dall’assedio l’8 Maggio 1429 ne uscì a cavallo in armatura e tale vittoria che le valse il titolo di “Pulzella di Orleans”. Dopo qualche giorno, il 18 maggio 1429, ottenne una nuova vittoria: a Patay inflisse una dura sconfitta alle armate inglesi. Queste due vittorie permisero la conquista del territorio francese fino a Reims e quindi l’incoronazione solenne del Delfino con il nome di Carlo VII. Reims era infatti la città dove da secoli avvenivano le consacrazioni dei re di Francia. Ma, una volta incoronato re, Carlo VII fu preso dal desiderio di arrivare a un compromesso e decise di trattare con gli Inglesi. Giovanna non ci stette e volle, invece, continuare a combattere da sola, senza l’appoggio della Corona. Il 24 maggio del 1430 fu catturata dai Borgognoni, i quali erano dalla parte degli Inglesi, e a questi fu venduta per una cifra molto alta (10.000 tornesi) per raccogliere la quale furono alzate le imposte in Normandia, all’epoca sotto il dominio di Londra. Venne imprigionata nel Castello di Rouen e qui processata per eresia e stregoneria. In realtà, racontano gli storici che se ne occuparono in seguito, si trattava di un tribunale dell’Inquisizione inquinato da interessi politci, a favore degli Inglesi. I giudici spesso non rispettarono le procedure, non tennero conto delle affermazioni che potevano portare a scagionare l’imputata, e comunque il collegio giudicante era sovrastato dalla figura del cardinale di Winchester, Henry Beaufort (1374-1447), prozio e cancelliere di Enrico VI. Condannata, Giovanna d’Arco venne arsa viva – neppure ventenne – sulla piazza del Mercato Vecchio a Rouen il 30 maggio 1431.
Giovanna d’Arco a cavallo in armatura da un manoscritto miniato del 1505
Carlo VII non fece nulla per aiutarla; però, dopo la conquista di Rouen (1450), volle aprire un’inchiesta sul processo che portò alla completa riabilitazione di Giovanna d’Arco. Sancita al livello più alto, da papa Callisto III, nel 1456. Giovanna d’Arco fu beatificata il 1909 da papa san Pio X e canonizzata nel 1920 da papa Benedetto XV. Una sua statua è stata posta nella cattedrale di Winchester, dinnanzi alla tomba del Cardinale Beaufort, colui che ebbe un ruolo decisivo nel tragico e infausto processo. Giovanna d’Arco è stata dichiarata patrona di Francia, della telegrafia e della radiofonia. È venerata anche come protettrice dei martiri e dei perseguitati religiosi, delle forze armate e di polizia. La sua memoria liturgica è celebrata il 30 maggio. Viene richiamata esplicitamente nel catechismo della Chiesa cattolica quale una delle più belle dimostrazioni d’un animo aperto alla Grazia salvatrice. Oggi è la santa francese più venerata.
Santa Giovanna d’Arco raffigurata in armatura di cavaliere mentre mostra le insegne di Francia
Se sopra tutte le donne in armi tra medioevo e rinascimento spicca la figura di Giovanna d’Arco va detto che esistono alcuni fulgidi esempi italiani di donne in armi. Le più significative sono Marzia degli Ubaldini, Orsina Visconti, Antonia Torelli, Donella Rossi e Costanza da Correggio. Anche in Italia non sono rari i casi di donne impegnate in azioni militari, soprattutto difensive. A partire dalla seconda metà del ‘300, infatti, si assiste, almeno in area emiliano-lombarda, ad una «femminilizzazione dell’aristocrazia territoriale» (Arcangeli, pp. 599-600), che avrebbe conosciuto il suo apice nella prima metà del ‘500, al punto da ipotizzare per Caterina Sforza, secondo la definizione di Joan Kelly, «un’acme delle potenzialità femminili tra Quattro e Cinquecento» (Covini, p. 247). È in questa cornice, quindi, che cercherò di far emergere una specificità militare, oltre a quella politica, di questo Rinascimento al femminile.
Donna in armi da miniatura del XV secolo
Un primo esempio è rappresentato da Marzia degli Ubaldini da Susinana, anche conosciuta come Cia degli Ordelaffi. Nata nel 1317 dall’unione tra il nobile ghibellino Vanni degli Ubaldini e la fiorentina Andreina di Maghinardo Pagani, passò la sua infanzia nei castelli aviti posti a guardia delle vette appenniniche. Nella prima metà degli anni ’30 del XIV secolo, Marzia sposò Francesco II Ordelaffi, il più acerrimo nemico del potere papale in Romagna. Nel decennio successivo, la signoria dell’Ordelaffi si estese su tutta la Romagna centrale, comprendendo Forlì, Cesena, Forlimpopoli, Bertinoro e altri centri minori. La forza dell’Ordelaffi era tale che il papa Innocenzo VI bandì nel 1356 una crociata contro di lui, appello rinnovato nel 1357 e nel 1359, al fine di riportare le città romagnole sotto il controllo pontificio. Per difendere meglio le sue città, Francesco restò a Forlì, principale centro del suo dominio, mentre mandò sua moglie Marzia a Cesena, ordinando agli abitanti e ai magistrati della città di obbedirle come si fosse trattato della sua stessa persona. Il temperamento energico della moglie dell’Ordelaffi non tardò ad emergere. In uno scambio di lettere tra i due coniugi, vediamo, alla raccomandazione del marito di aver cura della città, ella rispose: «Signor mio, piacciavi di aver buona cura di Forlì, che io averò buona cura di Cesena» (Viroli, p. 58). Marzia arrivò nella città affidatale a cavallo, in armatura, e ne prese possesso nel 1356. Già il 29 aprile del 1357 la fazione guelfa insorse, obbligando Marzia a ritirarsi nella cittadella fortificata con i suoi uomini. Matteo Villani, nella Nova Cronica, scrisse di lei che «con animo ardito e franco, più che virile, prese la difesa del minor cerchio e della rocca mostrando di poco temere cosa che avvenuta le fosse» (Villani, p. 223). Qualche giorno più tardi, un forte esercito comandato dal legato papale, il cardinale d’Albornoz, si avvicinava alle mura della città. Sappiamo con certezza che Marzia prese parte attiva ai combattimenti per la difesa della fortezza di Cesena. È ancora Matteo Villani che ci informa: «Ella sola rimase guidatrice della guerra e capitana dei soldati, e il dì e la notte difendea la murata dagli assalti della gente sì virtuosamente e con così ardito e fiero animo che amici e i nemici la ridottavano non meno che se la persona del capitano fosse presente» (Villani, p. 225). Ciononostante, la posizione di Marzia era indifendibile senza l’invio di rinforzi da Forlì, che non arrivarono mai. Per questa ragione il cardinale d’Albornoz, per non versare sangue inutilmente, permise al padre di Marzia, il vecchio capitano di ventura Vanni da Susinana, di tentare di convincere la figlia ad arrendersi. Egli le disse: «Tu puoi prestar fede alla mia esperienza militare; ho vedute le opere degli assedianti, ho veduto l’abisso su cui pendi sospesa; tutto è perduto. Giunto è l’istante di arrenderti, e di accettare le onorate condizioni che il legato mi incarica di offrirti» (Levorati, p. 140). Il fatto che il padre di Marzia non si indirizzasse alla figlia in termini sentimentali, ma con considerazioni di ambito squisitamente militare, ci dice qualcosa sul tipo di rapporto che correva tra padre e figlia, sul lessico famigliare che doveva esistere tra loro e, in ultima istanza, sul tipo di educazione che la giovane doveva aver ricevuto. Evidentemente Marzia doveva avere familiarità con il mondo militare, con le sue categorie e le sue dinamiche. L’assedio finì con la presa della fortezza di Cesena da parte delle truppe papali grazie al collasso delle mura della rocca ottenuto con l’escavazione di gallerie sotterranee. Prima che il castello cedesse, comunque, Marzia capitolò, ottenendo la libertà per i suoi uomini, ma consegnandosi prigioniera con i propri figli.
Stemma Gonzaga, duchi di Mantova e Guastalla
Un secondo caso, un po’ più tardo, è rappresentato da Orsina Visconti, signora del feudo emiliano di Guastalla. Nel 1426, nel corso delle guerre che opposero Milano e Venezia, il feudo Guastallese, strategicamente collocato sulla sponda destra del fiume Po, al confine meridionale dello stato visconteo, fu attaccato dalle truppe veneziane. Il signore di Guastalla, Guido Torelli, era in quel momento assente, impegnato in altre campagne militari nel sud della Penisola. La difesa della comunità ricadde allora sulla moglie del Torelli, Orsina Visconti, del ramo dei Visconti di Somma. Orsina, invece che sorpresa dalle incombenze militari, sembra emergere dalle fonti come a suo agio nella battaglia. Ella viene infatti descritta come «molto coraggiosa, e nel mestiero delle armi grandemente addestrata, e potuto avrebbe di leggieri far fronte al nemico» (Affò, p. 27). Orsina diresse personalmente gli uomini in battaglia per spezzare l’assedio veneziano, interamente armata e a cavallo. La storia ci dice anche che, prima del combattimento, ella andò sulle mura della comunità per insultare i soldati avversari, uccidendone diversi. «La donna forte di quanto succedeva, e veduta l’occasione di far prova del suo valore, chiamò tosto da Parma assai fanti, e balestrati, de’ quali fattasi condottiera ella stessa, venne ad insultar quelle schiere che alla sua Guastalla strage minacciavano e ruina. Fu bello il vederla di lucid’armi coperta frenar generoso destriero, disporre i suoi seguaci a battaglia, ed esortarli con acconcie parole alla pugna; ma fu terribile ancora il rimirarla scagliarsi addosso alle ostili squadre, sbaragliarle, e fugarle. Lasciò ella morti più di cinquecento Schiavoni sul campo, varj de’ quali caddero dal braccio di lei stessa trafitti: onde spaventato il rimanente dell’esercito diedesi precipitosamente alla fuga. La sua corazza poi colle altre armi da lei usate fu conservata come il più nobil trofeo che adornar potesse l’Armeria delle Rocca» (Affò, pp. 28-30).
Un altro caso simile ci viene offerto qualche anno più tardi da una nipote di Orsina, Donella Rossi-Sanvitale. Nata nel 1435 fu la figlia di Pietro Maria Rossi, conte di Berceto, e di Antonia Torelli, a sua volta figlia di Guido Torelli e Orsina Visconti. Nel 1448 anche Antonia aveva dato prova di attitudine al comando e doti militari aiutando suo marito a reprimere un sollevamento popolare nella città di Parma, guidando una schiera di uomini armati, degna figlia della madre. Quanto a Donella, ella sposò nel 1454 il conte Giberto Sanvitale, rivale di suo padre nel quadro dell’aristocrazia parmense. Il matrimonio, tuttavia, non riuscì a riconciliare le due fazioni, e, nel 1482, Donella si trovò sola a difendere il castello di Sala Baganza, uno dei più importanti bastioni sanvitaleschi, dall’attacco di suo cugino, Amuratte Torelli. Ancora una volta l’assedio fu feroce, ma Donella seppe resistere prendendo parte attiva al combattimento, portando le armi ma anche motivando i suoi soldati con incitazioni e incoraggiamenti. «Tale oppugnazioni sostenevasi da Donella con fortezza superiore ed animo di femmina, dando ella a dividere coraggio grande in quell’arduo cimento. Assisteva armata ai difensori; e con virile costanza esortandoli, ammonendoli, amichevolmente chiamandoli, e scorrendo pei baloardi ne cresceva il fervore» (Ronchini, p. 132). L’assedio si concluse non solo favorevolmente per Donella, ma essa riuscì anche a uccidere il capo degli assedianti, Amuratte, con un colpo di archibugio tirato dalle mura del castello che colpì il cugino al femore.
Ancora nel 1527, nel corso delle Guerre d’Italia, troviamo altri esempi di donne alla difesa della comunità o del castello in assenza dei mariti. In quest’anno, nella piccola comunità di Novellara, nella diocesi di Reggio Emilia, vediamo Costanza da Correggio, moglie di Alessandro I Gonzaga, difendere la Rocca di Novellara e resistere all’assedio delle truppe veneziane e imperiali con «animo d’homo, et non di donna» (Ariosi, p. 100).
Statua di Giovanna d’Arco in armatura presso la Cattedrale di Notre Dame de Paris
Dai casi qui brevemente esposti emergono sotto trama alcuni aspetti degni di considerazione. Notiamo infatti, benché in modo indiretto, come la dimensione educativa assuma un ruolo importante in relazione alle azioni militari di queste donne. Nel primo caso, Marzia degli Ubaldini è figlia e nipote di militari di professione. A lei il padre si indirizza in termini tecnici, con argomentazioni squisitamente militari. Nei casi successivi, vediamo invece tre generazioni di donne (Orsina-Antonia-Donella), tutte impegnate attivamente sul piano militare. La stessa Donella, nel corso della sua infanzia aveva visto il padre, Pier Maria Rossi, anch’egli militare di professione, intento a fortificare i suoi feudi di pianura e di montagna. Una contemporanea ai pochi esempi fatti è Bianca Maria Visconti, moglie di Francesco Sforza, che nel 1448 difese la città di Cremona dall’assalto veneziano guidando le truppe cittadine vestita di armatura. Bianca Maria, divenuta duchessa di Milano, fu a sua volta responsabile dell’educazione della più celebre donna in armi del Rinascimento italiano, Caterina Sforza.
Caterina Sforza, madre di Giovanni delle Bande Nere
Caterina Sforza sposò in terze nozze Giovanni de’ Medici in gran segreto. Pochi anni più tardi i due diventeranno genitori di Ludovico, che da adulto sarà famoso con il nome di Giovanni dalle Bande Nere. Giovanni de’ Medici, detto il Popolano, era giunto alla corte di Caterina nel 1496 in qualità di ambasciatore della Repubblica di Firenze ed era stato alloggiato nella fortezza di Ravaldino. Le nozze, pur contrastate in un primo momento dallo zio di Caterina, Ludovico Sforza, avevano infine ricevuto la sua approvazione e quella dei figli di Caterina. Dopo la nascita del piccolo Ludovico Medici, Caterina dovette fare i conti con il peggioramento della situazione tra Venezia e Firenze, dal momento che i territori su cui governava erano sulle vie di passaggio dei due eserciti. Per questo, con volontà di difesa, decise di inviare in soccorso a Firenze un contingente di cavalieri. Improvvisamente Giovanni de’ Medici si ammalò così gravemente da dovere lasciare il campo di battaglia per recarsi a Forlì. Qui, nonostante le cure, le sue condizioni continuano a peggiorare e viene trasferito a Santa Maria in Bagno, dove si sperava nell’azione miracolosa delle acque del luogo. Il 14 settembre del 1498 Giovanni de’ Medici morì. Caterina era al suo cospetto, da lui chiamata perché gli fosse accanto nelle ultime ore. L’unione tra Giovanni de’ Medici e Caterina Sforza è all’origine della linea dinastica granducale dei Medici. Dal matrimonio di Giovanni dalle Bande Nere con Maria Salviati – figlia di Lucrezia de’ Medici, del ramo principale mediceo – nacque Cosimo I de’ Medici, secondo duca di Firenze e primo Granduca di Toscana. La linea di successione medicea durerà oltre due secoli, fino al 1743, estinguendosi con un altra grande figura femminile della storia d’Italia: Anna Maria Luisa de’ Medici.
Anna Maria Luisa de’ Medici raffigurata come Minerva da Jan Frans van Douven
Emerge dunque, indirettamente ma inequivocabilmente, una pedagogia militare rivolta alle giovani aristocratiche che, una volta sposate, avrebbero dovuto, in caso di bisogno, ma non in modo improvvisato, ausiliare il marito militarmente. Ausilio, non dipendenza, né immediata subordinazione, come dimostrano i casi delle donne qui considerate – si pensi in particolare a Marzia degli Ubaldini – che presero decisioni in autonomia, definendo in tal modo il futuro delle signorie cui appartenevano. In tal senso si delinea un nuovo aspetto della vicenda femminile del Medioevo e del Rinascimento.
Autori
David Salomoni e Andrea Claudio Galluzzo
Bibliografia
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Vittorio Ariosi (a cura di), Memorie Istoriche dei Gonzaga di Novellara scritte dal Canonico Vincenzo Davolio, Aliberti editore, Roma 2009.
Sophie Cassagnes-Broquet, Chevaleresses. Une chevalerie au féminin, Perrin, Paris 2013.
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Nadia Covini, Tra patronage e ruolo politico: Bianca Maria Visconti (1450-1468), in Donne di potere nel Rinascimento, a cura di Letizia Arcangeli e Susanna Peyronel, Viella, Roma 2008.
Cronica di Matteo e Filippo Villani, in Biblioteca enciclopedica italiana, Vol. XXX, Per Nicolò Bettoni, Milano 1834.
Monica Ferrari, “Per non manchare in tuto del debito mio”. L’educazione dei bambini Sforza nel Quattrocento, FrancoAngeli, Milano 2000.
Jacopo Filippo Foresti, De Claris Mulieribus, Ferraria, Lorenzo de Rubeis, 1497.
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Ambrogio Levorati, Dizionario biografico-cronologico degli uomini illustri, Per Nicolò Bettoni, Milano 1821. (Vol. 1, Donne illustri).
Federico Piseri, Avanzandomi tempo […] ho imparato un poco de scrivere». Studio sulla progressiva caratterizzazione di genere delle lettere dei figli degli Sforza negli anni della loro formazione, in corso di pubblicazione negli atti del Colloquio Internazionale Lettres de femmes dans l’Europe médiévale (XIe-XVIe siècle), Casa de Velázquez Madrid, 23-25 maggio 2016.
Amadio Ronchini, Notizie biografiche intorno a Donella Rossi-Sanvitale, in «Poligrafo. Giornale di scienze, lettere, arti», I (1844)
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