Canapone, o il Babbo, come più familiarmente i fiorentini chiamavano il Granduca Leopoldo II, lasciò per sempre Firenze il 27 aprile del 1859, mogio mogio uscendo da Boboli attraversò la città salutato da un continuo scappellar di tube per salire in carrozza la via Bolognese verso l’oblio della sua dinastia. Si parlò di “rivoluzione fiorentina”, quella scoppiata nella piazza di Barbano, una grande e polverosa area al centro del tessuto urbano della città, dove si ritrovavano i monelli a giocare e dove, altri monelli più grandicelli per lungo tempo avevano raggiunto con il favore delle tenebre il palazzo del marchese Ferdinando Bartolommei a cospirare e in quel giorno di entusiasmo collettivo a creare il governo provvisorio composto dai triumviri Malenchini, Peruzzi e Danzini.

Tutto si svolse con signorilità e tranquillità, forse perché lo stesso Granduca volle evitare di far uscire i soldati dalle caserme, magari immaginando che sarebbe tornato dopo qualche tempo, come già era accaduto in passato. Leopoldo II era un artigiano della politica, alternava il lavoro a palazzo con quello nella bottega del Parini in via Maggio, dove con il grembiule addosso lavorava di tornio. Alle incombenze di stato affiancava anche quelle di agricoltore, fosse per suo diletto o con lo scopo di migliorare le campagne toscane e delle maremme. Questo animo tranquillo era a volte nascosto dall’immagine esteriore del burbero Leopoldo, pronto però ad intenerirsi per poco, tanto che il Collodi ne prese in prestito la personalità e lo trasformò nel personaggio di Mangiafuoco, di fuori cattivo e scorbutico ma dentro buono come il pane, forse per questo l’ambasciatore francese parlando di quel giorno pieno di incertezze poté affermare: “Perbacco! E neanche un vetro rotto!”.

Leopoldo II di Toscana

Fu così che la mattina del 27 aprile del 1859 sull’onda delle notizie che arrivavano da fuori confine i capipopolo fiorentini, tra i quali il fornaio Beppe Dolfi, arringarono la folla inconsapevoli di quanto avevano messo in moto, ovvero l’inarrestabile strada per l’unità d’Italia. Quella della Toscana che in breve tempo diventò una costola del nuovo stato, fu una mossa semplice, come per la palla che ruzzolando in discesa arriva a degli scalini e a balzelli prosegue inarrestabile la sua corsa verso l’annessione che si concretizzò nel marzo del 1860. La classe dirigente locale era moderata, lungimirante, colta e preparata; partecipe delle vicende internazionali, anche se Firenze era poco più di una cittadina di provincia; tutto lo spirito di quell’evento si respira nel guardare il quadro del Fanfani, con quella piazza della Signoria gremita a festa e un tricolore issato con emozione e incoscienza sulla facciata di Palazzo Vecchio.

Autore

Giuseppe Garbarino