Nella pianura di Campaldino, tra i castelli casentinesi di Poppi e di Romena, Firenze e i guelfi combatterono e vinsero, nel giorno di San Barnaba, 11 giugno 1289, contro Arezzo e i ghibellini una battaglia che rappresentò non solo il momento più importante di un lungo contrasto, ma anche una tappa fondamentale per la conquista del predominio in Toscana. Dopo aver accennato forse a una prima mossa diversiva atta a far credere che si sarebbe presa la via diretta del Valdarno, l’esercito fiorentino, rinforzato da contingenti della Lega Guelfa, da cavalieri pistoiesi e da truppe bolognesi e lucchesi, si era posto in marcia verso il passo della Consuma per raggiungere Arezzo attraverso il Casentino, dalla parte cioè in cui il contado aretino e i diretti possessi del vescovo della città confinavano con le terre del conte Guido Novello, in quell’anno podestà di Arezzo. Le truppe fiorentine, comandate da Aimeric di Narbona, assommavano a milleseicento cavalieri e diecimila fanti. L’esercito aretino, che raccoglieva cavalieri ghibellini della Toscana, della Romagna, della marca di Ancona e del ducato di Spoleto, era più debole, specialmente nella cavalleria, ma non in misura tale da essere predestinato alla sconfitta. Comprendeva infatti ottocento cavalieri e ottomila fanti.
L’idea di dar battaglia campale nell’unico punto del Casentino in cui l’ampiezza del terreno lo rendeva possibile e prima che l’esercito nemico avesse messo a sacco – come in realtà fece dopo la battaglia e come aveva cominciato a fare con quelle di Guido Novello – le terre del vescovo aretino, dei nobili cittadini e del comune, era dunque per gli Aretini e i ghibellini un rischio calcolato e non una decisione avventata, come invece pensavano Guglielmo dei Pazzi e Bonconte da Montefeltro. Ma a questa decisione della nobiltà ghibellina, fiera della sua rozza vigoria, non era forse estraneo un certo disprezzo per quella che doveva apparirle la ‛civile’ mollezza fiorentina.
“Richiesono di battaglia i Fiorentini, non temendo perché i Fiorentini fossono due cotanti cavalieri di loro, ma dispregiandoli, dicendo che si lisciavano come donne e pettinavano le zazzere, e gli aveano a schifo e per niente”
Giovanni Villani, Cap. VII 131
Né si deve dimenticare che nel caso di un successo ghibellino, con l’Appennino da risalire alle spalle, le truppe guelfe avrebbero finito per essere tagliate a pezzi. L’inizio della battaglia sembrò dar ragione agli Aretini. Con una carica furiosa e sollevando un fitto polverone in una giornata particolarmente afosa anche per le grosse nubi che si addensavano nel cielo, i cavalieri corazzati ghibellini attaccarono le linee della cavalleria e della fanteria che coprivano i fianchi dello schieramento guelfo. Le linee guelfe e i feditori furono travolti nella confusione mentre i fanti aretini cercavano di ridurre il vantaggio della cavalleria nemica strisciando sotto i cavalli dei Fiorentini per squarciarne il ventre coi coltelli.
Il fortunato attacco preparò la sconfitta degli Aretini, perché i loro cavalieri, inseguendo quelli fiorentini, spezzettarono la battaglia in una serie di corpo a corpo e persero i contatti con la fanteria, favorendo d’altra parte, con l’incauta avanzata, la finale manovra avvolgente dei Fiorentini. Questi ultimi, cavalieri in ritirata e fanti, fatta massa insieme, ebbero ragione in due tempi successivi della cavalleria e della fanteria nemica. All’esito finale della battaglia contribuirono poi altri due fatti: Corso Donati, che avrebbe dovuto rimanere in disparte con una schiera di cavalieri per proteggere un’eventuale ritirata dei guelfi, disubbidendo alla consegna caricò di fianco i ghibellini. Guido Novello, d’altra parte, quando ancora le sorti della battaglia avrebbero potuto forse essere di nuovo rovesciate con un assalto improvviso, fuggì a mettersi in salvo con una squadra intatta di cavalieri.
Il bilancio dello scontro fu particolarmente sanguinoso. Secondo una valutazione che non sembra esagerata, gli uccisi in campo ghibellino furono millesettecento e i prigionieri più di duemila. Oltre Bonconte da Montefeltro, che Dante immagina morto qualche miglio lontano dal campo di battaglia, alla confluenza dell’Archiano con l’Arno, morirono, fra i capi ghibellini, il vecchio vescovo aretino Guglielmino Ubertini, Guglielmo e Ranieri dei Pazzi, tre degli Uberti, Ciante dei Fifanti e Dante degli Abbati, che insieme ai Lamberti, agli Scolari e ai conti di Gangalandi avevano combattuto contro la loro città. Fra i vincitori, Bindo del Baschiera Tosinghi morì pochi giorni dopo per le ferite riportate, Ticcio de’ Visdomini cadde sul campo al pari del ‛bailli’ di Aimeric di Narbona, Guglielmo di Durfort.
La presenza di Dante alla battaglia è attestata da una fonte tarda, ma attendibile, Leonardo Bruni. Egli militava a cavallo tra i feditori, che erano truppe scelte di prima linea, e il fatto è indice delle discrete condizioni economiche della famiglia, perché cavallo e armatura erano a carico del cavaliere. Forse ciò è indice anche della gagliardia del giovane poeta, dato che le due o tre decine di feditori forniti da ciascun sesto cittadino erano sicuramente inferiori alla sua teorica disponibilità numerica. Al primo fortunato urto degli Aretini, come ci dice una lettera ricordata dal Bruni e ora perduta, Dante, che come feditore era schierato nel punto nevralgico della battaglia, fu assalito da “temenza molta”. Qualche critico vorrebbe attribuire questo timore unicamente alla sua preoccupazione per l’esito dello scontro, senza rendersi conto che negando a Dante un comprensibilissimo senso di paura, ne diminuisce in fondo l’umanità.
Sarebbe interessante poter accertare quale peso abbia avuto sulla sensibilità del poeta questo episodio di sangue della sua vita; a meno però di affidarci a gratuite supposizioni, dobbiamo accontentarci di fantasticare sulla stupenda testimonianza lasciataci dal poeta stesso: l’episodio di Bonconte e il ricordo del temporale che flagellò dopo lo scontro, in una livida atmosfera, il campo di battaglia coperto di cadaveri. Secondo un’ipotesi a Campaldino il poeta avrebbe conosciuto Cecco Angiolieri, che faceva parte col padre del drappello senese.
Autore
Giovanni Cherubini