STORIA DELLA CAVALLERIA
La classe guerriera si distingue fra il guerriero a piedi e il guerriero su un carro o a cavallo, giacché quest’ultimo è indice di un’élite fondata sul prestigio e sulla ricchezza. La valorizzazione dell’arma, del cavallo e di una casta dedita all’arte della guerra, porta lentamente alla creazione di una “nobiltà” guerriera che accompagna l’elaborazione di nuove tecniche di combattimento, di doveri, di diritti, di riti e di un codice d’onore specifico. L’antichità conobbe numerose forme cavalleresche. In Grecia (Spagna, Atene, Creta, Macedonia eccetera) la cavalleria è un’unità d’élite formata da cittadini fortunati capaci di provvedere al proprio armamento e occuparsi di un cavallo. Spesso essa sostituisce la guardia del re, come a Sparta (gli hippies), a Creta o in Macedonia con la cavalleria dei “compagni” del re (hetairoi), l’antica guardia nobile del capo supremo militare. All’epoca dei diadochi compare una cavalleria interamente corazzata, i catafratti, prefigurazione formale della cavalleria medievale. S’incontrano guardie reali a cavallo anche presso sciiti, ittiti, celti, in particolare la “cavalleria” nobile di Vercingetorige, che Cesare del De bello gallico chiama equites, e persiani, la famosa guardia del corpo di Ciro il Grande, i cui cavalieri erano muniti di piastroni con scaglie di bronzo. A Roma, il secondo ordine era formato dagli equites, i cavalieri, chiamati talvolta milites aurati per via degli speroni d’oro, simboli del loro stato, che ritroviamo ai piedi dei cavalieri medievali. La loro origine risalirebbe alla guardia a cavallo di Romolo, i celeres. Limitati nel numero, i cavalieri della Repubblica erano di solito reclutati in tutti gli strati sociali. Sotto l’Impero, diventare cavalieri presupponeva un reddito di 400.000 sesterzi. Erano concecssi loro alcuni privilegi: portare gli speroni, un anello, una tunica di porpora, mantenimento e cura del cavallo a carico dello Stato, posti riservati in manifestazioni pubbliche eccetera. All’epoca dei Gracchi, i cavalieri furono incaricati dell’amministrazione della giustizia e furono sottoposti a diversi obblighi: partecipazione a riti equini quali quello del 15 luglio, in cui cavalieri dovevano recarsi a cavallo al tempio di Marte, passaggio in rassegna da parte del censore ogni cinque anni, obbligo della cura del cavallo e delle armi ecc. Inoltre, un codice d’onore li obbigava, pena una degradazione ad esclusione dall’ordine, a condurre una vita pubblica e privata rigorosa, così come a mantenere le loro fortune. Tali principi, associati al ripristino delle armi virili legate alla consuetudine germanica e completati da precetti cristiani, costituiranno le basi della cavalleria feudale. Quest’ultima è l’erede diretta, attraverso l’antichità, del mondo protostorico degli indoeuropei con l’istituzione, sin dall’età dei metalli e perfino nel neolitico, della tripartizione funzionale della società in clero, guerrieri/nobili e lavoratori i futuri oratores, bellatores, laboratores della società medievale.
Origini della Cavalleria
La cavalleria ha origini germaniche tuttavia dal XIV secolo furono avanzate alcune ipotesi senza grande successo. Le principali teorie, che non evidenzieremo, furono tre: l’origine egiziana, l’origine romana, l’origine arabo-musulmana. Oltre le tre teorie appena esposte quella che, oggi, rimane largamente accettata dagli storici è la teoria germanica. Essa proviene da Tacito che, nella sua Germania, descrive una cerimonia nel corso della quale un adolescente nato libero riceve la framea (lancia) e lo scudo, lasciando l’infanzia per diventare adulto, quindi guerriero. Tacito allora conclude: questo è l’abito virile di quei popoli; questo è il primo onore della loro giovinezza. La comparsa di tale rito di passaggio con le più antiche vestizioni conosciute (XII secolo) è sorprendente: matrice simbolica comune, stessa brevità virile stessa natura profana del rito. La forma religiosa è ancora scarsa, mentre l’aspetto spirituale è presente nell’intimo guerriero. Nata nei secoli XI-XII, la cavalleria è scaturita dalla funzione di due gruppi dominanti delle società carolingia: il gruppo della nobiltà fondiaria, in cui la fortuna e i privilegi si trasmettono in modo ereditario, ma la cui vocazione non è militare, e il gruppo di guerrieri professionisti liberi, “uomini nuovi” cresciuti nella casa del signore. L’origine di tale cambiamento si deve alla crescita del prestigio delle armi, rafforzato da quello della vestizione valorizzata dalla Chiesa. Da allora in poi la cavalleria è inglobata nel vassallaggio, e si generalizza l’uso secondo il quale, per essere vassallo, bisogna essere cavaliere armato con la vestizione. La parola miles designa contemporaneamente il cavaliere, il combattente a cavallo, in nobile e il vassallo, il quale nominato miles noster dal suo signore. I privilegi della nobiltà divennero quelli della cavalleria e viceversa: privilegi militari (portare spada ecc.), fiscali (esenzione dalle imposte pubbliche, dalle consuetudines ecc.), giuridici (diritto processuale, giudizio dei pari ecc.) che venivano trasmessi ai figli del cavaliere.
Le fasi dell’investitura cavalleresca
La vestizione primitiva (IX-X secolo) rimane vicina al rito germanico, con una base sostanzialmente laica: il cavaliere riceve le armi, soprattutto la spada, senza una grande cerimonia, con raccomandazioni etiche e una breve preghiera. Il luogo po’ essere il cortile di un castello, a piazza di una città o un campo di battaglia. A partire dal X e XI secolo, aumentano la ritualizzazione e la sacralizzazione nella Chiesa, compaiono le prime forme di benedizione della spada, mentre si precisano le prescrizioni etiche. Il contenuto rituale deve molto alle liturgie utilizzate per le incoronazioni reali o imperiali. La preghiera d’investitura chieda a Dio di benedire la spada del cavaliere “perché essa si elevi a difesa della chiesa, delle vedove, degli orfani e di tutti i servi di Dio contro il flagello dei pagani”. Essa gli viene consegnata, dopo aver poggiato sull’altare durante la vigilia d’armi, dall’officiante in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ai quali si associano San Giorgio e San Michele. Tuttavia il rito rimane ancora semplice, poiché conserva la sobrietà virile delle origini. Nel XIII secolo la cristianizzazione del rito è totale: vi è la nascita di un rituale complesso, come rivela il pontificale del vescovo di Mende, in cui compare sotto forma di ordinazione un ottavo sacramento, dal contenuto profondamente etico e spirituale. La vestizione è quindi posta sullo stesso piano dell’ordinazione del prete. Il rito si compone di tre parti: la prima di tipo preparatorio (il digiuno, la confessione, la vigilia delle armi, ecc.); la seconda di consacrazione (la messa, la comunione, la benedizione, la consegna della spada benedetta, il bacio di pace ecc.); la terza la parte festosa. La vestizione comporta anche conseguenze determinanti su tre piani: giuridico (il nuovo cavaliere accede al mondo degli adulti e acquisisce maturità legale), sociale (il cavaliere sfugge alla tutela paterna e diventa un individuo dotato d’indipendenza totale), militare (può alzare bandiera e pennone, essendo stato investito del cingulum militiae).
Cavalleria e Nobiltà
Si deve far presente che cavalleria e nobiltà non hanno sempre coinciso. Fino al XII secolo non vi era confusione tra nobiltà e cavalleria, poiché quest’ultima non era ancora riservata alla prima. Esistono differenti livelli: l’alta nobiltà (nobilissimi milites) le cui origini risalgono a potenti e antiche stirpi di combattenti a cavallo; la media nobiltà (castellani e loro vassalli), i nobili e potenti cavalieri, che si assimilano progressivamente con la nobiltà nell’XI secolo; i semplici cavalieri, servitori armati dei precedenti (milites castri, gregarii, satellites, ecc.) che sono vassalli senza terre proprie, proprietari di allodio, vassalli rovinati, cavalieri servi dell’Impero.
La perdita dello Stato Cavalleresco
La grandezza cavalleresca è accompagnata da una contropartita infamante: la possibile perdita dello stato cavalleresco o degradatio militaris, talvolta chiamata “degradazione delle armi e nobiltà”. Essa viene inflitta ai cavalieri che hanno contravvenuto alle leggi non scritte ma reali della cavalleria, cavalieri “di cattivo comportamento, spergiuri e felloni” (crimini puniti con la morte nel medioevo, poiché turbavano l’armonia divina della società e implicavano la duplicità “diabolica”) oppure colpevoli del crimine di lesa maestà. Si possono aggiungere gli atti gravi (saccheggi di edifici religiosi, rinnegamento della fede cristiana ecc.).
Il motivo principale della perdita della cavalleria è legata soprattutto ad atti di tradimento militare e feudale.
Il Modello Cavalleresco
Padrone dei beni e degli uomini, almeno per i più potenti di loro, il cavaliere ha il dovere di essere il modello vivente di ciò che un uomo, sopratutto un guerriero, il quale conduce una “retta, bella e santa vita”, può produrre di più vicino alla perfezione.
Il Simbolismo dell’Armamento del Cavaliere
Ci limiteremo alle corrispondenze avanzate da San Paolo, che furono quelle del medioevo. Egli scrisse: “Per il resto, attingere forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma […] contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete perciò l’armatura di Dio […]. / State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagandare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello spirito, cioè la parola di Dio”. Queste corrispondenze paoline furono ristrutturate dagli esegeti medievali, che spesso diedero loro un contenuto soggettivo, e fu aggiunta una settima per metterle in accordo con le sette virtù cardinali e i sette doni dello Spirito.
Riportiamo qui di seguito le corrispondenze più comuni:
• Elmo: la speranza, l’intelligenza , il pudore.
• Corazza: la prudenza, la pietà, la protezione contro il vizio e l’errore.
• Manopole: la giustizia, la scienza, il discernimento, l’onore.
• Scudo: la fede, il consiglio, la protezione contro l’orgoglio, la dissolutezza e l’eresia.
• Lancia: la carità, la saggezza, la retta verità.
• Speroni d’oro: la temperanza, il timore di Dio e lo zelo della salvezza.
• Spada: la forza, la parola di Dio, il coraggio, la potenza.
La Guerra, il Potere, il Prestigio
La cavalleria ha inciso profondamente nell’immaginario della cultura occidentale: ne è addirittura divenuta un’asse portante, uno di quegli elementi che non conoscono tramonto, destinato a rinascere dopo ogni passeggera eclissi. Eppure fin dal XII secolo si era annunciata la morte della cavalleria, col racconto della fine delle consuetudini della Tavola Rotonda. I cavalieri della realtà (con i loro problemi economici, le loro miserie quotidiane, le questioni di ingaggi mercenari, il loro correre di torneo in torneo alla ricerca di premi da mettere poi in pegno, oppure in vantaggiosi matrimoni…) non raggiunsero mai la perfezione dei loro modelli neanche ai temi d’oro della cavalleria. Tempi d’oro che, poi, non si sa bene neppure quando storicamente situare: pur ammesso che questo sia un problema plausibile sotto il profilo storico. Dall’altra parte la storia fiorentina conosceva una vicenda cavalleresca almeno dal secolo XII, che in parte era simile nella koiné cavalleresca europea. I milites (nel senso di combattenti a cavallo forniti di armatura pesante e di uno status legittimato da un rito iniziatico che li rende parte di una “corporazione” di guerrieri alla quale si accede per cooptazione) compaiono per tempo nella penisola italica come altrove. Possiamo individuarli già con chiarezza nell’XI secolo e a partire dalla età del XII cominciano (tanto nel regnum Italiae quanto nel regno siculo normanno) a essere oggetto di pesanti limitazioni dell’accesso alla dignità cavalleresca, diritto al quale tende a venir conferito solo a quelli che già potevano vantare in famiglia dei cavalieri. Si delineava pertanto la tendenza a restringere l’aristocrazia cavalleresca, che tate era di fatto, sino a farla coincidere con un’aristocrazia che tale fosse anche di diritto, una “nobiltà”. Ma il mondo cittadino, dove i discendenti della piccola e media aristocrazia militare provenienti dal contado si incontravano con il resto del ceto dirigente urbano dei boni viri, era restio alle chiusure di diritto. La dignità cavalleresca divenne con il Duecento indispensabile per accedere a cariche come quella del podestà e di Capitano del Popolo. C’erano vere e proprie dinastie (specie in regioni povere e rurali, come le Marche) di piccoli nobili che si può dire vivessero facendo il funzionario forestiero di professione nelle città comunali; e si creava così una complessa rete di consuetudini e di clientele. La funzione culturale che questi reggitori temporanei di governi assolsero anche involontariamente fu di contribuire alla diffusione e circolazione delle idee e dell’etica della cavalleria; valori questi di cui si occupa anche la trattatistica di regimine potestatis. Per definizione l’etica cavalleresca era ritenuta un qualcosa di gestibile a livello personale e il cavaliere era nelle sue espressioni letterarie una figura errante, un solitario. Ma la realtà era ben diversa: la condizione cavalleresca era profondamente sociale. Il cavaliere non affrontava la vita di professionista della guerra se non in “comitive”, o quanto meno scortato da un sia pur modesto seguito. Nelle città, la cavalleria era un affare di famiglia; e quando nella Firenze duecentesca le istituzioni popolane trionfanti porranno il cavalierato tra i segni caratteristici dell’appartenenza al ceto magnatizio, avranno ben le loro ragioni legate non tanto al rigore giuridico quanto ala realtà e allo stile di vita, al modo di comportarsi. Nelle città toscane come altrove tra il XII e il XIII secolo, il fattore discriminante tra l’essere e il non essere magnati era quindi il sapere e il poter combattere a cavallo, l’esercitare il diritto alla vendetta e alla guerra privata “… E parea la terra sua”, come diceva Dino Compagni del cavalier Corso Donati. Prima di tutto occorre chiarire un problema delicato che è, al tempo stesso, di terminologia e di periodizzazione. Parlare di cavalleria “comunale” non è lo stesso di parlare di cavalleria “cittadina”: non, almeno, quanto all’origine e alla provenienza dei milites e delle famiglie all’interno delle quali la dignità cavalleresca era di fatto consueto che si tramandava di generazione in generazione. Diciamo dunque cavalleria “comunale”: quanto alle sue origini e alla prima parte della sua storia, cioè all’XI e al XII secolo, solo alla fine di quest’ultimo, e meglio ancora nel successivo, essa si presenterà dotata di una sua fisionomia meglio precisabile, anche se certo non statica. Dobbiamo tener presente che la militia può avere varie origini. Nella sostanza diremmo che esse sono due: quella “feudale” dei milites inurbati provenienti dal contado; e quella invece, pur propriamente “cittadina”, dei milites in quanto combattenti a cavallo tenuti a mantenere a totali o parziali loro spese un equipaggiamento adeguato per la guerra cioè cavallo e armamento pesante. Le due qualificazioni di miles nobilis da un lato, di miles pro communi dall’altro, pur distinguendo due livelli di cavalierato, indicano peraltro due tipi di funzione congiunti da un’omogeneità di fondo: essi costituiscono due livelli della medesima militia. Il dato qualificante di tale omogeneità era appunto la militia: il combattere a cavallo, che non era solo l’espressione di una certa disponibilità economica e di una capacità tecnica cui potevano affiancarsi riconoscimenti e prerogative sul piano giuridico, ma anche la base sostanziale di un”genere di vita” e d’una visione del mondo appoggiata a un contesto culturale reciso fatto di riti e di contenuti etico-rappresentativi. La militia dei comuni toscani muta parecchio nella struttura sociale delle sue componenti e nel suo peso rispetto alla vita pubblica fra XI e XIV secolo: in essa tuttavia permane la distinzione fra chi è cavaliere e chi non lo è, fra chi detiene la dignità cavalleresca e chi non la detiene. Non va dunque sottovalutata né ridotta a pura indicazione di una stratificazione sociale la contrapposizione tra milites e pedites, sinonimo di quella, che appare più chiara e significativa, fra nobiles o maiores, e populus o minores. Sotto il profilo militare il populus combattente a piedi: il che è un combattere in modo subalterno segno appunto di una condizione sociale inferiore. Chi militat lo fa a cavallo: e la traduzione volgare di miles con la parola “cavaliere” lo conferma in pieno. Il discorso torna quindi per forza di cose sugli addobbamenti e sul loro valore, ancor prima che giuridico, mentale. L’addobbamento doveva sancire con il suo rituale l’appartenenza a un gruppo qualificato di un comune genere di vita e da comuni prerogative. Ma quando nel medioevo comunale venne a cessare, con il primo Trecento, l’identificazione fra nobiles e militia, il cingolo militare si rese disponibile anche per la gente di origine popolana. Il desiderio di armare e di essere armati cavalieri nasceva sempre e comunque da una profonda ammirazione per le glorie della cavalleria: per quanto si trattasse di glorie nella realtà assai raramente rinverdite dai mercanti e dai banchieri Déguisés en chevalier che indossavano il vaio e calzavano gli sproni dorati nella Firenze dei banchieri, dei mercanti e degli imprenditori.
Verso una Rifeudalizzazione Mentale
La stretta oligarchica imposta alla politica fiorentina a partire dagli anni Ottanta del XIV secolo arrestò l’inflazione della dignità cavalleresca che era stata tipica del circa mezzo secolo tra il 1330 e il tumulto dei ciompi. Ora, l’esser cavalieri tornava a costituire uno status symbol preciso che, se non aveva più niente a che vedere con l’appartenenza al vecchio ceto magnatizio, seguiva in cambio l’adesione a un modo di vivere e di pensare, la concreta possibilità di spendere e una volontà di impegnarsi nella vita politica, diplomatica e sociale; ora significava entrare in un ambito elitario e dover condurre una vita adeguata al rango ostentato. Del resto, se il conseguir la dignità cavalleresca non era più cosa alla portata di molti com’era stato nel pieno Trecento, sugli insigniti della cintura di cavaliere forte si faceva soprattutto sentire il controllo della Parte Guelfa garante fra l’altro, se non di una “chiusura”, quanto meno di una severa limitazione dell’accesso di nuove famiglie alla cerchia dei casati oligarchici e pertanto del contenimento della mobilità sociale e della salvaguardia delle posizioni politiche acquisite.
Far Cavalieri a Firenze
Il significato dell’ordine cavalleresco. Secondo alcuni la nobiltà medievale e moderna si sarebbe configurata, al suo nascere, proprio col fatto che a partire da circa la metà del XII secolo si era profilata un po’ in tutta Europa la tendenza alla “chiusura” del ceto cavalleresco. I milites, i cavalieri, erano quelli che potevano e sapevano combattere a cavallo, pesantemente armati, all’interno delle comitive guerriere al servizio di questo o di quel signore. Per far un cavaliere e mantenerlo efficiente occorrevano un lungo tirocinio avviato già sin dall’infanzia, un continuo addestramento e soprattutto un cospicuo gruzzolo di denaro sufficiente a provvedere alle copiose spese per le armi, i cavalli e il mantenimento di un pur modesto seguito. In un certo senso il sistema feudale si era andato strutturando proprio per assicurare anzitutto la sopravvivenza e la sicurezza: quindi manteneva e sosteneva quel ceto cavalleresco che ne costituiva la difesa per quanto a ciò fossero connessi caratteri di arbitrio e di violenza. Ai cavalieri si richiedevano doti fisiche quali la forza il coraggio e la destrezza, il cui livello era controllato per mezzo del continuo esercizio cui essi si sottoponevano. Era poi necessario un sistema socio-economico che provvedesse al mantenimento dei guerrieri: e nel corso XII secolo taluni mutamenti impostisi nel panorama economico avevano messo in crisi l’intera compagine feudale. In tali condizioni i monarchi del tempo avevano dovuto restringere le norme di annessione alla dignità cavalleresca. Secondo la tradizione, infatti, poteva accedere al cavalierato chiunque dimostrasse di essere degno; ma da circa la metà del XII secolo solo gli appartenenti a famiglie che vantassero già tra i loro membri dei cavalieri avevano a loro volta il diritto di conseguire la cintura e gli sproni dorati, simbolo della dignità cavalleresca. Fu nel regno di Sicilia, in quello di Inghilterra e nell’impero germanico che queste limitazioni si imposero per prime.
Storia Cavalleria Comunale
Si potrebbe suddividere la storia della cavalleria comunale, tra XII e XIII secolo, in tre fasi distinte:
1. La prima si aprì verso la fine del XII secolo, con la chiusura dell’accesso alla dignità cavalleresca. Fino ad allora, nella pratica, qualunque uomo libero, dotato di forza fisica e ricco quanto bastava per mantenere armi e cavalli poteva ambire a essere cooptato nella militia, la quale non era né un sodalizio chiuso garantito da norme giuridiche né una corporazione professionale. Si diventava cavalieri quando tali si era “consacrati” da altri cavalieri, cioè da altre persone che avevano a loro volta ricevuto questo tipo di consacrazione. L’addobbamento com’era detta in italiano questa cerimonia (dal germanico dubban “colpire”, latinizzato in dubbare, da cui il francese antico aduber), aveva un carattere laico: la sua sacralità era amministrata da guerrieri e non includeva alcun ricorso a pratiche sacramentali amministrate dal clero. Soltanto la fine del XIII secolo la Chiesa – nell’ambito della quale pur si benedicevano solamente dall’Alto Medioevo le armi destinate ai principi e ai novi milites, così come si benedicevano gli arnesi da lavoro, i campi, i raccolti dei contadini e tutto quello che doveva esser messo al riparo dal Maligno – accolse definitivamente nel novero dei sui sacramentalia l’ordinatio novi milites, cioè l’addobbamento. Fino alla metà del XII secolo aveva avuto valore il principio della cooptazione, sulla base della quale ogni cavaliere poteva creare un nuovo cavaliere a seguito di una semplice cerimonia principalmente costituita da due gesti: primo, la consegna della spada appesa ad una cintura; secondo, un colpo dato con il palmo della mano o con il piatto della lama d’un altra spada tra la spalla e la nuca (la collée, la “collata”, la “giuttonata” o la “gotata”) e accompagnato da un abbraccio. Ma con il trascorrere del tempo i sovrani si erano appropriati del diritto di far cavalieri: già negli anni Quaranta del XII secolo il vescovo Ottone di Frisinga, parente e biografo di Federico I, si stupiva che ne comuni lombardi si facesse cavaliere chiunque, senza badare alla condizione sociale. La pratica denunziata da Ottone, che a noi potrebbe sembrare più “moderna”, era in realtà arcaica: le aristocrazie cittadine del Regnum Italiae erano restate fedeli al principio della cooptazione di nuovi cavalieri, praticamente ignorando la chiusura del ceto militare.
2. La seconda fase del processo si aprì quando, nell’ultimo quarto del XIII secolo, le organizzazioni popolane degli imprenditori, dei banchieri, dei mercanti e dei produttori cittadini contesero e strapparono nelle città il potere ai rappresentanti del ceto magnatizio, i quali erano in parte discendenti delle vecchie famiglie di rango militare che possedevano beni immobili in città e nel contado e di quelle schiatte consortili che attorno ad essi si erano costituite. Ora, dato che la dignità cavalleresca era intesa come segno distintivo ed esclusivo di quei casati, l’esser cavaliere o avere all’interno della propria famiglia qualcuno insignito tale significava appartenere ai magnati: per questo, con gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella del 1293, chi fosse insignito della dignità cavalleresca era allontanato da taluni organi della partecipazione al governo comunale. Tuttavia l’esser cavaliere era necessario per accedere ad alcuni pubblici uffici, quali quello del Podestà o di Capitano del Popolo. D’altra parte il nome stesso della cavalleria, il fascino delle imprese ad essa legate e il fasto delle cerimonie d’addobbamento erano un richiamo molto forte er molti esponenti dei ceti emergenti di origine imprenditoriale o mercantile i quali, benché detentori della ricchezza mobile e immobile, erano privi di un passato glorioso o comunque di una tradizione familiare cui rifarsi. Essi cercavano di imitare lo stile di vita del ceto magnatizio; ambivano quindi indossare la cintura e a calzare gli sproni dorati di cavaliere e a condurre un genere di vita immerso nel lusso e nel fasto.
3. La terza ed ultima fase della storia della cavalleria comunale corrisponde pertanto all’approvazione da parte del Popolo del diritto di far cavalieri in deroga alle chiusure giuridiche sostenute dalla normativa imperiale. In Firenze, i “cavalieri di Popolo” si affiancarono a quelli della Parte Guelfa, l’organizzazione che garantiva la fedeltà di Firenze alla linea politica del papa e della monarchia angioina di Napoli e nella quale esponenti delle vecchie famiglie magnatizie guelfe figuravano accanto a rappresentati del Popolo Grasso della fazione cosiddetta “guelfo-nera”. Il Popolo e la Parte Guelfa finirono nel corso del Trecento col pretendere di essere de facto – insieme al Comune – le fonti della dignità cavalleresca. Tale pretesa fu custodita e difesa molto gelosamente. Di frequente la dignità era conferita a giovani di ricche e di illustri famiglie fiorentine da personaggi esterni di alto lignaggio, come re o principi: quando ciò accadeva, il neo cavaliere doveva richiedere al Comune i riconoscimento del suo nuovo titolo e giurare fedeltà alla magistratura fiorentina affinché la dignità conferita avesse valore anche nell’ambito fiorentino. In questo periodo la città la fazione appaiono strettamente connesse. Nel corso del XIV secolo, ai valori originari si aggiunse il rapporto di lealtà cavalleresca verso il re o verso il principe. Al pari di queste monarchie, anche le città comunali si erano ormai assunte il potere di elargire la dignità cavalleresca pretendendo in cambio che la fedeltà alla patria (fedeltà al ceto dirigente della fazione egemonica) divenisse a sua volt un valore cavalleresco. Detto questo si deve analizzare quali erano i luoghi dell’investitura cavalleresca. Se nei regni le cerimonie avvenivano in chiesa e il novello cavaliere era addobbato presso il pulpito: luogo dove si predicava e si mostravano le reliquie, quindi adatto alla presentazione alla popolazione del nuovo miles. Nelle città comunali abbiamo spesso delle eccezioni e anche a Firenze spesso al posto del pulpito c’era un parallelo laico. Gli addobbamenti avevano spesso luogo alla “ringhiera”, cioè alla balaustra del palazzo dei Priori, nel caso si prendesse il titolo di cavaliere dalla Signoria, ma anche il Comune, il Popolo e la Parte Guelfa conferivano il titolo equestre. Per quel che riguarda la cerimonia di addobbamento a Firenze le notizie le riceviamo da Franco Sacchetti, vissuto nel XIV secolo, e da Francesco Filarete, vissuto nel XV secolo. Grazie ai loro scritti sappiamo che a Firenze alla cerimonia il cavaliere andava vestito di “una vesta verde con maniche larghe foderata di pelle si gli gli è di verno, et le maniche e ‘l sopraspalle di nastro d’oro. La berretta verde o di panno o di drapo, con una ghirlanda d’ulivo con qualche foglia dorata sopra la berretta. Le calze verde solate. La cintura verde si seta. La detta veste à essere cinta al cavaliere con uno bello stochetto a lato”.