In un momento di sincera fratellanza ed intimità spirituale, al termine della celebrazione delle Ceneri, inizio del periodo di purificazione della Quaresima, l’Arciconfraternita di Parte Guelfa ha rinnovato il rito della benigna concessione delle Insegne da Papa Clemente IV alla cavalleria fiorentina avvenuta il 26 Febbraio 1266, in riconoscenza dei servigi resi nella battaglia di Benevento in difesa della Chiesa. Come 754 anni fa, i Cavalieri di Parte Guelfa hanno ricevuto la benedizione ed il conforto del Cappellano Maggiore monsignor Vasco Giuliani nella Rettoria di San Carlo, rinnovando la secolare missione di fede, speranza e carità dell’Ordo Partis Guelfae.
Monsignor Vasco Giuliani, Rettore di San Carlo e di Orsanmichele e Cappellano Maggiore di Parte Guelfa, benedice le insegne di Papa Clemente IV
Nell’anno 1266 una delegazione di consoli dei Cavalieri di Parte Guelfa di Firenze, dopo il determinante apporto fornito alle truppe di Carlo I d’Angiò nella Battaglia di Benevento disputatasi il 26 febbraio di quell’anno, si recò a Roma dal Papa Clemente IV per rinnovare il giuramento di fedeltà. Il pontefice francese li omaggiò del suo stemma: l’aquila rossa in campo d’argento che artiglia un drago verde, in seguito sopra la testa dell’aquila venne aggiunto un giglio rosso. Ciò valse l’istituzione formale dell’Ordo Partis Guelfae ovvero l’Ordine dei Cavalieri di Parte Guelfa, al quale il Papa consentì anche i sigilli per divenire Fons Honorum e continuare a creare con stabilità un corpo di cavalieri al servizio del papato.
Battaglia di Benevento, pittura contenuta nella Nova Cronica di Giovanni Villani, XIV secolo
La Festa delle Insegne di Parte Guelfa ha radici profonde ed antiche che affondano nel sanguinoso periodo degli anni Sessanta del XIII secolo. La cavalleria guelfa era scesa in campo giocandosi il tutto per tutto a favore del papato che era stato a lungo in conflitto con la casa imperiale degli Hohenstaufen durante il periodo del loro dominio in Italia. Al tempo della battaglia tenutasi nella piana di Benevento alla fine di quel gelido febbraio del 1266, il sovrano Hohenstaufen nel Regno di Sicilia era Manfredi, figlio naturale di Federico II di Svevia. Corradino, legittimo erede del regno in quanto nipote diretto di Federico, era giovane e si trovava al sicuro oltre le Alpi, in Baviera. Approfittando di una falsa notizia relativa alla presunta morte di quest’ultimo, Manfredi aveva usurpato il trono nel 1258. Papa Urbano IV, determinato a strappare il regno a Manfredi, nel 1263 aveva intrapreso una trattativa segreta per favorire l’intervento di Carlo d’Angiò, promettendogli il trono siciliano, ma la discesa in Italia dell’angioino avvenne in realtà solo nel 1265 con il successore di Urbano, papa Clemente IV, il cui pieno appoggio fu decisivo per i successi di Carlo.
L’incoronazione di Manfredi di Svevia, figlio naturale dell’imperatore Federico II
Carlo giunse a Roma già nel 1265 ma fu temporaneamente fermato da gravi problemi finanziari: Manfredi, a sua volta, non sarebbe sceso in campo contro di lui fino al gennaio del 1266, quando peraltro il grosso dell’esercito franco-angioino aveva ormai varcato le Alpi e le lusinghe angioine stavano facendo breccia tra i feudatari del regno di Sicilia. Allarmato dalle diserzioni tra i suoi seguaci e temendo ulteriori tradimenti, Manfredi, chiamato anche Sultano di Lucera, cercò di portare Carlo in battaglia il più rapidamente possibile. L’Angioino tentò a sua volta di far uscire allo scoperto Manfredi, che era asserragliato a Capua, in modo da costringerlo ad una pericolosa traversata degli Appennini, cosa che avrebbe consentito agli angioini, supportati dalla lega guelfa italiana, di impedire l’arrivo di rinforzi e rifornimenti per l’esercito imperiale. Manfredi peraltro aveva capito le intenzioni dell’avversario ed era rimasto in una posizione fortificata presso il fiume Calore, che in quel punto era attraversato da un solo ponte. Carlo d’Angiò aveva diviso la sua cavalleria in tre battaglioni. La fanteria e il primo battaglione, composto da 900 provenzali, erano in prima linea, comandati da Ugo di Mirepoix e Filippo di Montfort, signore di Castres. Dietro di loro si trovava il secondo battaglione, che consisteva di 400 mercenari italiani e 1.000 uomini della Linguadoca e della Francia centrale. Carlo guidava personalmente il secondo battaglione. Dietro di loro, il terzo battaglione consisteva in circa 700 uomini della contea di Fiandra sotto Gilles de Trasignies II, Connestabile di Francia, e Roberto III delle Fiandre. Rilevante fu l’apporto fornito a Carlo da un nutrito gruppo di cavalieri della Parte Guelfa di Firenze. Manfredi aveva adottato disposizioni simili. I suoi arcieri saraceni di Lucera erano in prima linea. Dietro di loro si trovava il primo battaglione, 1.200 mercenari tedeschi armati con armature in strati di lastre, una novità per l’epoca, comandato da suo cugino Giordano d’Anglano e da Galvano di Anglona. Il secondo battaglione consisteva di circa 1000 mercenari italiani e 300 cavalieri leggeri saraceni, comandati da suo zio Galvano Lancia. Il terzo battaglione era composto da 1400 feudatari del Regno, sotto il comando personale di Manfredi.
Ritrovamento del corpo di Manfredi di Svevia sul campo di battaglia di Benevento
La battaglia iniziò al mattino, quando Manfredi fece avanzare sul ponte la sua prima linea composta da arcieri e cavalleria leggera. Queste forze attaccarono la fanteria francese, ma furono presto messe in fuga dal primo battaglione angioino. Avventatamente, non è noto se di propria iniziativa, o per ordine di Manfredi, o in seguito, come sembra probabile, all’errata interpretazione di un ordine ricevuto, il primo battaglione tedesco attraversò il ponte e contro-caricò i francesi. In un primo momento, i mercenari tedeschi sembravano inarrestabili: tutti i colpi rimbalzavano sulle loro corazze, e Carlo fu costretto ad impiegare anche il suo secondo battaglione. I tedeschi continuavano ad avanzare, ma i franco-angioini scoprirono che la nuova armatura a strati di piastre non proteggeva le ascelle quando il braccio veniva alzato per colpire ed iniziarono così a colpire a loro volta gli avversari sotto le ascelle. Inoltre i comandanti francesi diedero ordine agli arcieri ed ai fanti, con una spregiudicatezza che all’epoca era ritenuta veramente scorretta, di colpire i destrieri dei cavalieri nemici, causando gravi perdite e notevole confusione nella cavalleria sveva. Le sorti della battaglia da quel momento volsero velocemente contro Manfredi. Tutte le sue forze avevano attraversato l’unico ponte sul Calore per raggiungere il campo: a quel punto, infatti, anche il secondo battaglione tedesco aveva passato il fiume; Carlo aveva allora ordinato al suo terzo battaglione di circondare gli avversari su entrambi i lati, cosicché questi furono rapidamente messi in fuga. Davanti alla disfatta, quasi tutti i nobili del regno di Sicilia, presenti nel terzo battaglione di Manfredi, abbandonarono il campo, lasciando solo il re con pochi fedelissimi compagni d’arme. Dopo aver scambiato la sopravveste reale con il suo amico Tebaldo Annibaldi, Manfredi e i suoi seguaci si gettarono nella mischia, in cerca di una morte eroica, e furono uccisi. Manfredi venne nominato successivamente nel canto III del Paradiso della Divina Commedia dicendo che fu ucciso da due colpi di spada, uno alla testa e uno al petto.
Papa Clemente IV incorona Carlo I d’Angio’
La distruzione dell’esercito di Manfredi segnò il crollo della dominazione sveva degli Hohenstaufen in Italia e la quasi definitiva sconfitta della Parte Ghibellina. I resti del Regno di Sicilia furono conquistati senza resistenza. Insediatosi nel suo nuovo dominio, Re Carlo I attese a quel punto la discesa in Italia di Corradino di Svevia, l’ultima speranza degli Hohenstaufen, nel 1268, per sconfiggerlo nella battaglia di Tagliacozzo, imprigionarlo e successivamente farlo giustiziare a Napoli. Ciò segnò la completa vittoria della Parte Guelfa. In tutta Italia i ghibellini vennero uccisi e cacciati dalle città: ne parla più volte anche Dante Alighieri nella Divina Commedia, come quando cita Manfredi nel III canto del Purgatorio e lo incontra insieme a Virgilio sulla spiaggia dell’Antipurgatorio nella prima schiera di negligenti, quella dei morti scomunicati. Qui Manfredi racconta a Dante i suoi peccati e fa notare quanto la bontà del Signore sia grande. Dopo la battaglia, gli anni tra il 1267 ed il 1280 rappresentarono un periodo in cui le vecchie famiglie del guelfismo fiorentino dominarono la città senza contrasti troppo acuti. Accanto a questo gruppo convisse, abbastanza pacificamente, tutto un vasto ceto che proveniva dall’attivissimo mondo mercantile di Firenze e che contese fin dall’inizio del secolo la guida del Comune ai vecchi governanti. Furono questi i gruppi sociali che formarono di fatto la classe dirigente guelfa: la vecchia aristocrazia, i futuri magnati e i popolani più ricchi e potenti.
Papa Clemente IV concede per riconoscenza le proprie insegne al Console dei Cavalieri di Parte Guelfa, Giorgio Vasari, Salone dei Cinquecento, Palazzo Vecchio
Monsignor Vasco Giuliani, Rettore di San Carlo e di Orsanmichele e Cappellano Maggiore di Parte Guelfa, concede le insegne di Papa Clemente IV alla Parte Guelfa
La Festa delle Insegne, realizzata ogni anno il 26 Febbraio da Parte Guelfa, nell’anniversario della battaglia di Benevento, prevede la tradizionale concessione e benedizione delle insegne al termine della Santa Messa officiata dal Cappellano Maggiore per ricordare il dono di Papa Clemente IV, a una delegazione di Guelfi fiorentini fuoriusciti, del proprio personale stemma: un’aquila rossa su campo bianco che artiglia un drago verde. Dalla Cronica del Villani, che è l’unica fonte disponibile circa la notizia dell’esistenza di uno stemma personale di papa Clemente IV e il dono da lui elargito, emerge come, successivamente, la Parte Guelfa di Firenze vi aggiunse un piccolo giglio rosso, simbolo del Comune di Firenze dal 1251, collocato sopra la testa dell’aquila. Tale bandiera, fu quella sventolata dal pistoiese Corrado da Montemagno sulla piana di Grandella nella battaglia di Benevento il 26 febbraio del 1266. Nell’Apocalisse, il Drago rappresenta “l’antico serpente che si chiamava Diavolo e Satana, il seduttore del mondo intero”. L’immagine dell’aquila che artiglia un serpente è, comunque, un tema antico che simboleggia la lotta tra il Bene e il Male. Risulta dunque chiaro come il simbolo prescelto fosse un messaggio di crociata contro gli Svevi e contro Manfredi e i suoi alleati ghibellini. Ma l’Aquila, per dirla con Dante, era il “pubblico segno”, “il sacrosanto segno” dell’Impero e, pertanto, l’Aquila rappresentata nell’atto di artigliare il Drago risulta essere un’appropriazione pontificia del simbolo peculiare dell’Impero. Essa appariva, nel vessillo di Clemente IV, di colore rosso, anziché nero, e con il capo rivolto verso sinistra, invece che verso destra. Lo stemma corretto era, per l’Impero, l’Aquila nera su campo oro.
Autori
Marco Crisci e Andrea Claudio Galluzzo