Il rapporto tra i comportamenti cavallereschi e i modelli letterari delle Chansons de Geste e, soprattutto, dei cicli arturiani è argomento ormai noto. La letteratura descriveva la concretezza materiale: i cavalieri del mito erano un ritratto dei cavalieri reali ma, a loro volta, dalla letteratura quest’ultimi traevano modelli e stili di vita. Un’influenza reciproca e circolare tra la realtà e l’epica, che ha significativamente contribuito a plasmare la figura del cavaliere. A partire dalle copie dei romanzi di Chrétien de Troyes, l’araldica costruita appositamente per la rappresentazione dei personaggi arturiani – sempre secondo uno schema in cui la realtà materiale condiziona e, allo stesso tempo, viene condizionata dalla fantasia – acquisterà nell’ethos cavalleresco un valore unico e imprescindibile, che legherà indissolubilmente i milites alle figure dei cavalieri della Tavola Rotonda. La simbologia per loro ideata divenne così modello anche per la vita materiale, offrendo ai principi europei l’occasione di dare luogo a vere e proprie rievocazioni del mito. In particolare, erano i tornei a fornire l’opportunità di vestire i panni dei cavalieri di Artù.
A titolo d’esempio, in onore del giovane Amedeo VI di Savoia, non ancora conte, fu organizzato a Chambery un torneo nel quale la squadra sabauda si riunì intorno all’Ordine della Tavola Rotonda, i cui membri vestivano per l’appunto le armi dei cavalieri di Artù. Lo stesso Edoardo I d’Inghilterra, fanatico dei miti cavallereschi e del ciclo bretone, portò il costume arturiano oltre i campi dei tornei, imponendo riti anche all’interno della vita politica di corte58. Lodewijk van Velthen, chierico del Brabante alla corte del monarca inglese, narra che quando un vassallo di Edoardo denunciava al re il comportamento offensivo di un altro signore, il monarca esigeva che i cavalieri della sua corte vestissero i panni dei cavalieri di Artù, recando le loro insegne, e ne assumessero i nomi per vendicare il torto. Anche in Italia il modello letterario, soprattutto quello legato alla figura di Tristano, riscosse enorme successo e assurse a stile di vita tra i milites comunali e tra quelli del Regno di Napoli. In Toscana il cronista dei Gesta Florentinorum narra che, nel 1231, i senesi speravano di sconfiggere i fiorentini con l’ardore «tamquam Brittoni qui regem adhuc expectant dicuntur Arturum». Parlando poi delle compagnie di cavalieri, già Boncompagno da Signa nel suo Cedrus, composto tra il 1194 e il 1203, segnalava come nei Comuni italiani fossero diffuse societates che fin dal nome si ispiravano ai cavalieri della Tavola Rotonda, e che il fenomeno era particolarmente imponente in Toscana. A Pisa, patria di Rustichello, nel 1237 compare per la prima volta la «Compagnia de Tavola ritonda». Questa ha sicuramente influenzato la prassi militare toscana, nonché le mode guerresche, in quanto fu una delle compagnie di cavalieri cittadini che servirono altri Comuni come stipendiari: nei registri della Biccherna di Siena, nel giugno del 1230, si trova il pagamento di 35 lire e 14 soldi a Ghiandoni e Marignano, «capitaneis tabule rotonde de Pisis», come compenso per loro stessi e per altri ventiquattro membri della suddetta compagnia, per il servizio prestato per soli sette giorni65. In quei mesi sono registrati a Siena un gran numero di spese militari, per il chiaro intento da parte del Comune di rinforzare la propria capacità militare nell’anno di maggiore sforzo bellico fino a quel momento affrontato. E tutto lascia pensare che la compagnia pisana fosse nota per le sue grandi potenzialità militari. Si osserva quindi anche in Toscana un legame profondo tra l’ethos, la prassi cavalleresca e il ciclo arturiano. Il fenomeno sembra aver poi interessato in modo particolare Pisa. Del resto, questa città fu probabilmente quella che in Toscana più di altre ricoprì un ruolo fondamentale nella trasmissione di testi ispirati al ciclo bretone direttamente provenienti dalla Francia. In breve Pisa divenne anche un centro di produzione di romanzi e volgarizzamenti, con autori quali Rustichello e Guido da Pisa. Da qui la produzione di romanzi arturiani si irradiò nel resto della Toscana, probabilmente però perdendo in parte il contatto con la tradizione originaria francese, in favore di versioni nate dal mito locale. Ma nell’immaginario collettivo tali miti devono essere stati veicolati più dal comportamento quotidiano dei milites, ai quali si ispiravano, che dai romanzi e dai cantari.
A Firenze però riscossero maggiore successo i testi legati ai paladini di Carlo Magno, in quanto la tradizione della Parte Guelfa vedeva in Costantino il capostipite dei re di Francia, a sua volta discendente dei troiani. Verso la fine del Trecento infatti, nel Cantare dei Cantari, tutti coloro che preferivano la lettura della materia bretone rispetto alle Chanson de geste sono ironicamente indicati come «innamorati vecchi» e «cavalieri strani», e si possono rintracciare sarcastici commenti dei giullari nei confronti di chi voleva ascoltare le storie dei cavalieri di Artù. Tutto ciò non conferma l’ipotesi di un’influenza diretta del mito arturiano sull’opera in Santa Maria Novella, ma più in generale mostra una tendenza all’ispirazione ai modelli francesi in tutta l’aristocrazia fiorentina dell’epoca, tanto più che un afflusso di testi epico-cavellereschi francesi a Firenze, seppur sia stato ragionevolmente supposto in particolare per l’epoca di Carlo di Calabria, è argomento ancora non sondato dalla ricerca. Nell’affresco di Bruno, uno degli aspetti di maggiore rilevanza, tale da colpire anche Vasari, è costituito dagli armamenti difensivi indossati dai cavalieri. Si tratta dell’armamento di transizione di inizio Trecento, che costituì un’importante passo verso lo sviluppo dell’armatura propriamente detta. In questi nuovi modelli ebbero particolare rilevanza gli elmi, ma soprattutto gli elementi di cuoio cotto posti a protezione degli arti. Su questi ultimi, per la prima volta nella storia dell’armamento medievale, veniva dato grande spazio alla decorazione, che presto iniziò a comprendere l’arme del committente. Nascevano in questo modo, all’interno dell’apparato guerresco, nuovi supporti per l’apposizione delle insegne araldiche. Firenze, dove questo nuovo apparato difensivo è documentato più precocemente rispetto al resto d’Europa, fu uno dei centri armieri più all’avanguardia nella produzione di tali modelli, capace di grandi esportazioni in tutta Europa. Questo commercio ha significativamente concorso alla circolazione di modelli oplologici e, in un certa misura, araldici. Gli intensi rapporti
politici e commerciali tra Firenze e gli Angioini, inoltre, favorirono una proliferazione di commissioni anche dal Sud d’Italia, dove Carlo di Calabria perseguì una politica di protezionismo economico a favore degli armorari fiorentini. Lo stesso Carlo commissionò a Firenze, oltre che intere forniture di armi per il suo esercito, bracciali, schinieri, cosciali e guanti in cuoio bollito con impressi fregi e raffigurazioni delle sue insegne personali (la cui natura non è però specificata nel documento di allogazione), foderati di velluto rosso e di seta verde. Benché nella società fiorentina della prima metà del Trecento la legislazione tendesse a imbrigliare gli artisti nella rappresentazione dell’araldica negli spazi pubblici e civici, sulla base delle attuali ricerche appare evidente che queste disposizioni non influirono in alcun modo nella realizzazione dell’affresco di Santa Maria Novella. È comunque escluso che gli stemmi del ciclo mauriziano possano trarre ispirazione da un modello reale autoctono, fatta eccezione, ovviamente, per quello del committente di cui abbiamo detto sopra. Per contro acquista maggiore probabilità che gli elementi araldici rappresentati nel dipinto in Santa Maria Novella fossero il risultato di un’emulazione, e non della precisa imitazione, di un modello francese immaginario, cioè veicolato dalla letteratura, o reale, cioè osservato dai fiorentini nel quotidiano tra quei cavalieri francesi, rimasti per la maggior parte anonimi, che restarono in città. Costoro, frequentandone da protagonisti non solo la vita politica ed economica, ma anche quella sociale, lasciarono un segno indelebile tra i contemporanei, come è stato per il più celebre Guglielmo di Durfort. Quello dipinto da Bruno sarebbe quindi un modello “apocrifo”, ispirato da un costume guerresco maturo, ma non direttamente derivato dalla letteratura epica. L’affresco, qui pubblicato per la prima volta, pone ancora molti punti interrogativi, non solo per quanto riguarda l’araldica. Solamente studi più approfonditi e interdisciplinari potranno tentare di fornire risposte più accurate. In questa sede si è pertanto voluto portare questa ritrovata pittura alla conoscenza di storici dell’arte e dell’araldica, in modo da fornire un punto di partenza per future ricerche.
Autore
Marco Merlo