Nelle statistiche ufficiali degli anni 1950 la povertà si calcolava in redditi pro capite, perciò in dollari, ome si è continuato a fare da allora. Questo tipo di calcolo, insieme al parametro del Prodotto Interno Lordo, ha favorito l’espansione dei mercati e la commercializzazione progressiva di quasi ogni bisogno umano, che ora si paga in danaro. La nostra è diventata un’esistenza a tassametro dominata dai grandi capitali e dai profitti usurai che puniscono i deboli, privatizzando ogni attività anche sottraendola allo spazio solidaristico fuori mercato che sono i beni comuni. Misurare il reddito in danaro porta a considerare lavoro quasi esclusivamente il lavoro salariato. L’impresa che offre tale genere di lavoro ha gradualmente sostituito tutte le attività economiche più variegate che si erano formate nella storia.
Un’analisi più approfondita di cosa vuol dire “reddito” ma anche “occupazione” mostra altri aspetti dell’idea di “povertà”. Trasformiamo in metafora la testimonianza di Helena Norberg Hodge, nel suo libro “Il Futuro nel Passato”. Nella lingua Ladakh non esisteva la parola “povero”, non occorreva danaro e la gente era sempre completamente occupata non solo dalle attività per la sopravvivenza ma anche dalle feste, le visite ad amici e parenti, l’ospitalità ecc. A ogni famiglia bastavano i campi in suo possesso, coltivati da generazioni e ciascuna coltivazione accompagnata e seguita da un’altra tenendo il terreno sempre produttivo. La povertà è nata quando sono arrivati i turisti con le loro auto, macchine fotografiche, telefonini e modi di vita usa e getta, pavoneggiandosi in una ricchezza e superiorità dipendente da tecnologie di cui sono solo consumatori per danaro ma la cui produzione è fuori dal loro controllo.
Secondo le unità di misura delle statistiche del reddito, un senza dimora di New York con un reddito di poche decine di dollari a settimana è molto più ricco di un contadino del Ladakh con un reddito in danaro vicino allo zero, ma il barbone americano dorme per strada, vive sporco, mangia quello che gli capita, non fa nulla, è solo, a volte alcoolizzato e per quei pochi soldi dipende dall’assistenza altrui. Il contadino del Ladakh, statisticamente sottosviluppato: abita in una bella casa costruita a mano nella sua comunità, mangia e si cura coi prodotti della propria terra, tesse i propri abiti, si scalda con il legname dei boschi circostanti, educa i figli trasmettendo le sue abilità, gestisce la morte come un passaggio della vita e per qualsiasi esigenza è circondato da una rete di solidarietà. Ne deriva una dignità come persone e comunità difficilmente riscontrabile nella società dei consumi tutta fondata sul danaro, dove la persona umana ha scarsa autonomia e capacità di sopravvivenza.
Lo stato non viene coinvolto in nessun anello della sopravvivenza del Ladak, eccetto forse alcuni casi di emergenza sanitaria per importanti incidenti o malattie. I dati statistici dagli anni 1950 sono cambiati, anche nel modo di rilevarli, perché la povertà ha preso nuove forme e si nasconde in Italia dietro a un’apparente abbondanza di beni di consumo. Nel 1947 le calorie alimentari a persona al giorno erano in media 2250, considerate appena sopra il limite minimo di sussistenza, oggi siamo a 3250, ma l’obesità investe quasi il 40% degli italiani anche per il peggioramento della qualità alimentare a causa della pesante componente industriale nella preparazione del cibo. La diffusione nell’aria, nell’acqua e nella terra di sostanze chimiche inquinanti, che nel 1950 non esistevano, ha reso tutti più poveri; è aumentata l’infertilità maschile, calata del 30% negli ultimi 10 anni fino a toccare quasi 2 milioni di padri potenziali, che si aggiungono alle madri potenziali sterili, tanto che in alcuni ospedali quasi la metà dei bambini nasce con la maternità medicalmente assistita.
È diminuita moltissimo la mortalità infantile ma sono ancora numerose le interruzioni volontarie di gravidanza oltre a quelle naturali per il ritardo delle prime maternità. Davanti a 404.862 nuovi nati nel 2020 si sono avuti 67.638 aborti volontari a cui bisogna aggiungere un numero di aborti spontanei che sta fra il 10 e il 20% delle gravidanze. Se si sommano questi dati non ci allontaniamo dalle morti infantili nel primo anno di vita fra i popoli più poveri. Un’esistenza tutta fondata sul danaro con una drastica riduzione dei beni comuni e dei rapporti di solidarietà di vicinato, rende necessario programmarsi sulla base di bilanci familiari con poco spazio lasciato all’imprevisto, perché i bambini non nascono più ciascuno col proprio panierino ma con molti costi sia burocratici che reali a causa della scomparsa dei rapporti di solidarietà persino nella stessa famiglia col crescere della mercificazione di ogni bisogno.
L’aumento delle sicurezze sociali e dei livelli salariali dei lavoratori fa aumentare il costo del lavoro e gli imprenditori sono incoraggiati a investire negli strumenti tecnologici e nell’automazione o nella delocalizzazione per sostituire i lavoratori o trasferire l’attività dove i costi del lavoro sono più bassi. Gli interessi degli imprenditori sono infatti diversi da quelli dei loro salariati, perciò la piena occupazione col lavoro salariato privato è impossibile. Nel 2020 in Italia la disoccupazione totale è attorno al 9%, non lontana dalla situazione occupazionale del 10% della popolazione attiva disoccupata nel 1950 anche se in una condizione molto diversa, perché allora la grande percentuale di occupati in agricoltura costituiva una diffusa cultura della sopravvivenza mentre oggi nessuno sopravvive senza danaro. Anche dalla funzione pubblica si pretende sempre più per ridurre i costi e aumentare l’efficienza, perciò la politica rimasta oggi per tendere alla piena occupazione è quella che vietando l’obsolescenza programmata e aumentando la durata dei beni di consumo, finanziando le attività agricole autonome dall’industria, dalla chimica di sintesi, dal petrolio, si riesca a ricostruire, sulle nuove basi della transizione ecologica, un’economia sinergica di attività libere, artigiane, con riduzione di costi, abolizione di sprechi, rigenerazione di beni comuni e premiazione delle più varie forme di solidarietà. È ovvio che per sviluppare una politica simile devono finire i carichi burocratici e fiscali devastanti per il paese che hanno provocato la chiusura di migliaia di attività indipendenti e continuano a ostacolare gravemente l’apprendistato e la rigenerazione dell’artigianato di bottega che è la vera spina dorsale della cultura lavorativa e creativa di questo paese.
In altre parole si tratta di abbandonare l’economia di saccheggio cioè la dipendenza dal petrolio per ritrovare l’economia delle attività primarie, non più fondata sui minerali, ma rinnovabile e basata sul mondo vegetale e animale. Le idee di Keynes sono state il modo per trasformare, dopo la prima guerra mondiale, le catene di montaggio belliche in industria dei consumi con tendenza verso la crescita infinita, moltiplicando i salari anche pubblici. Ma oggi quelle stesse idee possono diventare la via con cui i vari enti pubblici, dallo stato alle regioni ai comuni, riescono a traghettarci, anche col reddito di contadinanza, cioè un mezzo stipendio a chi si dedica a un’agricoltura ponderale senza veleni, fuori dalla società dei consumi e avviarci verso un’economia ecologica basata sulla riduzione dei costi industriali e l’aumento delle attività autonome e della sovranità alimentare.
Le soluzioni per la piena occupazione alla luce dell’enciclica “Laudato sì”, sono diverse dagli anni 1950 e passano da una politica dei rifiuti che penalizzi drasticamente fino a vietare gli scarti non riutilizzabili e incapaci di avere un posto nei cicli di rigenerazione naturale, a una politica che investa nell’economia della terra finanziando ogni genere di ricerca e invenzione in grado di moltiplicare e rendere economica la cura della natura e la sovranità alimentare dei poveri.
Autore
Giannozzo Pucci di Barsento